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Presto di mattina. Un sogno impossibile, o quasi

Un sogno impossibile

«Vi racconto il mio sogno impossibile: diventare un libro», è il titolo di un articolo di Luigi Sampietro (1943-2023) scelto dalla redazione (Stefano Salis) del Domenicale de Il Sole 24 Ore, (23 luglio 2023, n. 201, VIII) per ricordare l’amico e il collaboratore scomparso, uno scrittore capace di «leggere capire e narrare con stile d’umiltà».

È stato per una vita, trent’anni, colonna portante del Domenicale, docente di Letteratura americana presso la Statale di Milano, traduttore e scrittore, ma soprattutto, come egli amava definirsi, “lettore di professione”. Il suo libro La Passione per la letteratura edito da Nino Aragno, (Torino 2017) riunisce circa centocinquanta dei sui articoli su “Il Sole.

Del resto – come affermava Thomas Carlyle ricordato dallo stesso Sampietro in un’intervista per la presentazione del libro – «la storia universale è un infinito libro sacro che tutti gli uomini scrivono e leggono e cercano di capire, e nel quale sono scritti anch’essi».

Questo desiderio di voler divenire un libro – ricorda Stefano Salis – esprime l’autenticità e l’intensità del suo essersi messo a servizio della letteratura per svelare nei libri, come in uno scrigno, un tesoro di verità e di realtà declinanti la condizione e l’avventura umana nelle sue pluriformi e infinite espressioni.

Il sogno impossibile di Sampietro, aggiunge Stefano Salis, affiora «da piccoli dettagli: dall’episodio dello zio che si ferma a raccontargli le storie, dal suo desiderio di reincarnarsi in un libro, dalla passione e dalla forza, dalla precisione e dall’arguzia che usa per parlare dei libri» (ivi, 9).

Tutto ciò rivela in Luigi Sampietro la consapevolezza che, per un umanista, il vero fine dell’attività e della critica letteraria sono la comunicazione con i lettori. Un’attività che richiede uno specifico impegno etico, il sentire della sua stessa interiorità: «la critica prepara il testo di un libro all’incontro con il suo destinatario, che corrisponde a un incontro tra due persone. Un incontro spirituale» (ivi, XVI).

Nei panni di un libro

Nei panni di un libro, così muta il titolo dell’articolo del 2005 del Domenicale nell’ampio volume di ben 775 pagine La passione della letteratura. Un articolo posto non a caso alla fine, a mo’ di post-scriptum: «mi chiedo se il mio destino non possa essere quello di invertire a un certo punto le parti e diventare un libro. Per vedere l’effetto che fa» (ivi, 747).

Ma poiché c’è libro e libro bisogna trovare quello giusto; che certamente per Sampietro non è un romanzo. Piuttosto, potrebbe assomigliare a uno di quelli che si possono aprire a caso, a spizzico, e saltando di qua e di là trovi sempre un interlocutore, come un vero amico che anche quando lo rivedi dopo molto tempo è come se l’avessi incontrato il giorno prima.

Forse si diventa un libro, ci si mette nei suoi panni, solo provando a scriverlo, incalza il nostro. Ma di che genere dovrebbe essere, egli si domanda. Certamente non un volume accademico, contenente dati ed informazioni e destinato ad essere presto dimenticato, perché superato da nuovi dati e informazioni. Ma neppure un libro di memorie, in quanto Sampietro dichiara di non aver nulla da raccontare. Forse allora una raccolta di saggi come i grandi autori; ma il rischio è quello di partorire solo pensierini, come quelli scritti sui quaderni a righe delle elementari.

Nei panni di un libro: come una specie di viaggio al culmine della coscienza, dove finalmente si distingue tra il grano e la zizzania. Ma non dovrà essere un libro confessione, no, no. Semmai deve rivelare ciò in cui si crede e si continua a credere, e non una volta, ma lungo tutta l’erranza della vita, in continuità con le parole che si sono lette e scritte, provando e riprovando a ricomporle, a scambiarle di posto, a sovrascriverle anche, fino a mostrare un’immagine, un volto, quello interiore e più profondo di sé:

«un libro che contenga la “quinta essenza”, ciò che rimane di noi, una volta passata la frontiera. Che non è necessariamente quella dell’aldilà, ma di un luogo in cui, come il grano dal loglio, si distinguono le cose futili da quelle che contano. Insomma un libro che mi riveli quello che penso: non per frammenti ma in maniera sostenuta e continua. Perché è nell’atto del mettere insieme le parole, provando e riprovando finché non corrispondono a una immagine interna, che si può scoprire ciò in cui si crede. I pensieri, come i sogni, posano sul fondo di noi stessi: non si costruiscono: si possono solo ricostruire. E un libro non è fatto del sogno di un giorno ma di ciò che la mente ha rielaborato nel tempo» (ivi, 748).

“Tendono alla chiarità le cose oscure”

Ho pensato così anch’io, meditando quest’ultimo pensiero del nostro, che la quinta essenza di un libro sia allora la parola stessa in gestazione. E il sogno, che è il silenzio dell’Assoluto in noi, si compone di parole che non si inventano indicando piuttosto un itinerario verso un altrove; parole che riceviamo da altri ed esse si posano sul fondo della coscienza come in un concepimento.

Queste poi crescono nella pagina, “la nuda e cruda parola scritta”: raccolta «in quello scrigno che è il volume cartaceo (e, oggi, il lettore di e-book), le parole rimangono ferme e sono i nostri occhi e il nostro pensiero a doverle inseguire nello spazio bianco della pagina. La quale, a sua volta, rappresenta il silenzio dell’assoluto da cui emergono» (ivi, 104).

Di più. Quel che pensa il nostro autore circa l’essenza che un libro deve contenere, sembra essere proprio la parola poetica capace di mostrare il chiarore del mistero delle cose e delle parole nell’attimo stesso del loro svanire; un itinerario sotterraneo che porta al loro compiersi.

Così scrive: l’essenza è «quel che ho in mente, pensando a Montale (“Tendono alla chiarità le cose oscure,/ si esauriscono i corpi in un fluire/ di tinte: queste in musiche. Svanire/ è dunque la ventura delle venture”); è una sorta di viaggio au bout de la conscience» (ivi, 748).

Forse il sogno impossibile di divenire un libro è reso possibile dalla poesia, perché nasce dal desiderio di offrire ai lettori un gesto di ringraziamento attraverso un’espressione di stupore. Il desiderio di fare dono di qualcosa che è dentro l’esistenza stessa ma anche oltre colui che scrive: il suo stesso stupore, l’incanto vissuto che celebra il mistero delle cose.

In un articolo del 2014 Sampietro scrive: «Ritrovo in un mare di vecchie carte il testo di un’intervista che rileggo. Sono le parole conclusive di un ancora giovane Walcott, qualche anno prima del Nobel, che, a un professorino in pellegrinaggio a casa sua a Boston, rivela l’arcano:

«La poesia? Credo che la si possa intendere come un atto di commemorazione. Un gesto di ringraziamento. E anche come un’espressione di stupore. La grande, grandissima poesia, poi, si colloca al di là dell’idea della morte. Di sicuro è qualcosa che va oltre la vita di chi la scrive. E per sua natura, per il fatto che è costruita sul ritmo la poesia è incantagione – incantesimo – e in quanto incantesimo è celebrazione».

«E che cosa celebra? Il mistero delle cose. Lo sconcerto, forse; forse addirittura lo stordimento. Ma al di là di tutto è allo stupore, alla capacità di stupirsi davanti alla realtà, che la poesia rende omaggio. Credo anche che quella del poeta sia un’occupazione che abbia qualcosa di sacro» (ivi, 554).

«Tua strada è poesia, la tua mèta è al di là della poesia»

Anche nel libro di Hermann Broch La morte di Virgilio la poesia genera una itineranza che porta altrove: «La mèta era al di là dell’oscurità, era al di là dei campi del passato custoditi dalle madri» (Feltrinelli, Milano 2016, 77).

«Svanire è la ventura» ci ha appena ricordato Montale, e in questo svanire, fluendo di colori e di questi in musiche, nell’esaurirsi infine anche della parola detta o scritta, chiusa e ferma nello scrigno del libro, da lì, abisso di silenzio, «vapora la vita quale essenza» – è ancora Montale.

Quasi a ricordare, almeno a me, itinerante nel cono di luce del Vangelo, quella buona ventura che è pure esemplarmente il concepimento e l’itineranza della Parola che si fa carne; del suo svuotarsi e farsi accogliente anche al vuoto della morte; kenosis della parola e suo abbassamento dentro l’umanità, fin nel fondo dei suoi scarti crocifissi.

E poi, principiare oltre, dissigillando la pietra, come voltando una pagina, riprendendo il cammino attraverso le pagine di un libro quadriforme, ad ogni pagina una piccola sosta, un respiro ampio, là dove più intensamente vapora lo spirito del Maestro. Un libro che ancor oggi chiede di esser riscritto con la vita, come un corpo scritto fuori e dentro il proprio corpo; di più: un corpo a corpo con la parola letta e riscritta, che può divenire, come la Bibbia, il corpus delle scritture in noi.

Sono debitore di questi pensieri alla ruminazione in me di alcuni frammenti di poesia di Emily Dickinson, come le briciole di quel pane della parabola evangelica che la donna Cananea rivendicava per sé e per sua figlia, fuori di sé dal male. Parole insieme avvolgenti e perforanti le sue, che trasformano le ruvide e oppositive parole rivoltele dal Maestro in parole di stupita ammirazione e gratitudine, che aprono Gesù stesso alla missione oltre i confini del suo popolo verso gli altri popoli: «Donna davvero grande è la tua fede. Avvenga secondo la tua parola».

Una parola muore
appena è detta
dice qualcuno –
Io dico che comincia
appena a vivere
quel giorno.
(Tutte le poesie, a cura di G. Ierolli, J1212 (1872) / F278 (1862).

E per Giuseppe Ungaretti il mondo, l’umanità, la sua stessa vita fioriscono dalla parola rinascente; quella affiorata dal silenzio, appena nata, scava un abisso nella vita del poeta, e questo uscir dal solco (delirante fermento), oh meraviglia: è poesia.

Poesia
è il mondo l’umanità
la propria vita
fioriti dalla parola
la limpida meraviglia
di un delirante fermento
Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
(Tutte le poesie, 58)

Nei panni di un libro vivente

L’apostolo Paolo scrivendo ai cristiani di Corinto ricorda loro che essi sono diventati, in ragione della sua predicazione, una sua lettera vivente: «La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini. È noto infatti che voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma su tavole di cuori umani» (2Cor 3, 2-3)

Così pure il dimorare del discepolo nella parola del Maestro è come rivestirsi delle sue parole vive, una chiamata anche oggi a metterci nei panni di quel libro vivente che è il vangelo. «Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente». (Col 3, 12-17)

Il sogno cui ambire non è appena quello di diventare un libro, ma semmai è azzardare a divenire un’intera biblioteca. Così la pensa san Girolamo quando scrisse del suo discepolo Nepoziano che «con la lettura assidua e la meditazione costante aveva fatto del suo cuore una biblioteca di Cristo» (Ep. 60,10: CSEL 54, 561).

A nostro incoraggiamento di novizi merita infine rileggere un passo della vita di santa Teresa d’Avila scritta da lei medesima: «Quando si proibì la lettura di molti libri in lingua volgare, io ne soffrii molto, perché la lettura di alcuni mi procurava gioia, e non potendo ormai più leggere perché quelli permessi erano in latino, il Signore mi disse: “Non darti pena, perché io ti darò un libro vivente”» (Libro della Vita, 26).

Una manciata di fango che diventa luce

Come nasce un uomo nell’amore così nasce un libro vivente dentro di lui: «E il Signore Dio formò l’uomo dal fango della terra e gli ispirò in faccia il soffio della vita e l’uomo divenne persona vivente» (Gn 2, 7).

E così nascono i libri, nell’amore, e così nascono
i libri che nessuno legge mai, e così il
libro prima di nascere Dio lo deposita in te
come una manciata di fango che diventa luce.
Domandano tutti come si fa a scrivere un
libro: si va vicino a Dio e gli si dice: feconda
la mia mente, mettiti nel mio cuore e portami
via dagli altri, rapiscimi.
Così nascono i libri, così nascono i poeti.
(Alda Merini, Corpo d’amore. Un incontro con Gesù, Frassinelli, Milano 23001, 81).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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