Noi siamo “il fabbricone”
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Noi siamo “il fabbricone”
Renato Cubo, “sceneggiatore autore e ogni tanto anche persona” , come lui stesso si presenta, il 24 maggio scorso ha postato su Il Post un articolo dal titolo Io sono la fabbrica: chi volesse può facilmente recuperarlo e dirottare la sua attenzione da qui a …qui: https://www.ilpost.it/2025/05/24/cubo-io-sono-la-fabbrica/.
Chi invece volesse proseguire questa lettura troverà le stesse atmosfere del pezzo di Cubo, rivolte al “fabbricone” di Ferrara: proprio per invogliare a seguire questo mio percorso, senza switchare all’articolo di Cubo, ho intitolato il pezzo NOI SIAMO IL FABBRICONE.
Sono sicuro che il “noi” meglio si adatta all’ “io”: non c’è mai un vettore che punta in un’unica direzione, dalla citta verso il fabbricone o dal fabbricone verso la città, come se fosse un vento che soffia in un verso preciso. Anche i venti, soprattutto di questi tempi, sono turbolenti.
In pianura è difficile guardare dall’alto le cose, ma quando si passa per l’autostrada dal tratto Occhiobello – Ferrara Nord, oppure si guarda su Google Maps – magari non mentre si sta guidando per quel tratto – il polo petrolchimico della nostra città, ci appare in tutta la sua grandezza e “splendore”.
Significa che tutti si possono fare un’idea precisa di ciò che quell’area fuori le mura, a nord della città, (lo stabilimento; il petrolchimico; il polo industriale; il fabbricone), rappresenta per chi lo osserva (sì, potete scegliere la definizione che ritenete più appropriata e realistica).
Sono ormai passati più di 30 anni da quando ho iniziato a lavorare presso il Centro Ricerche Giulio Natta di Ferrara: volutamente non ho inserito questa definizione nella risposta multipla precedente, per accentuare ancora di più la natura caleidoscopica di questo posto e segnalare la distanza che lo allontana da un certo immaginario collettivo: un luogo di produzioni industriali difficilmente viene percepito come un … motore di Ricerca, come un vero e proprio Centro di Cultura.
Quindi, come si vede, sembrerebbe che io, a differenza di Cubo, mi sia fatta un’idea ben precisa del “fabbricone”.
Sono entrato nel petrolchimico di Ferrara nel ‘90 all’ombra di torri e torce, alcune delle quali oggi sono scomparse: buttate giù perché obsolete, o sostituite dalle più recenti down flares.
Dopo il percorso universitario solitamente si ha un’idea del mondo del lavoro sulla base di ciò che uno vede da studente, ma arrivato qui, oltre al fascino della città di pietra, rimasi altrettanto affascinato e ipnotizzato dallo skyline di questa pseudo Manhattan di ferro e plastica.
Non avevo una posizione netta su cosa l’area industriale potesse rappresentare, nel bene e nel male, per la città e il territorio: venivo da una terra dove le industrie non esistevano e meno che meno esistevano delle aree così vaste occupate da metallo, fuoco, vapori e pennacchi roventi.
Eppure comprendevo i lati nascosti di questo posto e quelli ancora da scoprire per via di alcune suggestioni che avevo ormai metabolizzate grazie al poeta delle due muse, Leonardo Sinisgalli, il poeta-ingegnere della Civiltà delle Macchine, e grazie ai miei professori delle Università di Salerno e Napoli che avevano collaborato direttamente con Giulio Natta al tempo delle scoperte e invenzioni del Moplen e del Dutral.
Prima che arrivasse la petrolchimica e gli impianti ridisegnassero l’orizzonte della vasta pianura circostante, anche qui c’era poco da fare per guadagnarsi da vivere, proprio come dalle mie parti, nella Lucania che cominciava allora a sfruttare i suoi giacimenti di gas e petrolio della Val d’Agri. E dunque, in pratica, per me il petrolchimico rappresentava una visione del… futuro quello mio e anche quello della mia regione di provenienza.
Quando si vive in una città con un petrolchimico di queste dimensioni, uno crede di potersene fare un’opinione netta grazie al racconto degli apocalittici e a quello degli integrati, con i primi a sottolineare sempre e solo gli aspetti negativi del “fabbricone” e i secondi a elogiare tutti e solo gli aspetti positivi di uno dei più importanti siti industriali del Paese.
Si dà per scontato che ognuno debba prendere una posizione: o sei contro la fabbrica che uccide, o sei a favore della fabbrica che dà lavoro. Da questo punto di vista sono la persona meno indicata per fare questo, per dare cioè un giudizio definitivo viste le suggestioni delle quali ho parlato, visto il personale addomesticamento da parte di due muse.
Ma mi considero anche la persona più avvertita su cosa significhi vivere senza un… pharmakon come il “fabbricone” e i suoi prodotti perché, come l’etimologia stessa della parola insegna, se il….farmaco, in grandi dosi, può trasformarsi in un veleno, in piccole dosi può rappresentare una vera e propria cura.
Fa parte della natura tecnica di Homo (sia faber che sapiens) fare un uso del “farmaco”, usarlo, cioè, nelle proporzioni giuste, per sfruttarne le sue proprietà benefiche e controllarne il dosaggio per evitare che possa trasformarsi in veleno. Ad esempio l’energia nucleare può “servire” per costruire la bomba, ma anche per curare i tumori; la plastica può “servire” per confezionare esageratamente l’inserto di un giornale, ma anche per trattare una stenosi coronarica con un “semplice” stent.
È evidente che per la città di Ferrara la presenza del polo industriale ha avuto grandi ricadute positive su tutto il territorio: ha fatto crescere in popolazione ed estensione la città; ha offerto possibilità di lavoro a tanti giovani; ha creato le condizioni per far sviluppare l’università; ha avviato percorsi di formazione professionale e di inserimento al lavoro; ha promosso importanti processi sindacali e di sensibilizzazione alla cultura della sicurezza (l’industria chimica è quella meno colpita dagli infortuni sul lavoro) e della crescita di una coscienza ambientale e ambientalista.
Il polo industriale, in qualche modo, ha anche … curato e rimediato.
Ma è innegabile che le cattive notizie fanno sempre più notizia e che dunque al polo industriale vengano addebitate prevalentemente solo gli effetti devastanti del farmaco: deturpazione del paesaggio e dell’ambiente, peggioramento della qualità dell’aria, aumento di malattie dovute all’inquinamento e, conseguentemente, morti per tumore.
In uno scenario … farmacologico quindi potremmo dire che la città si divide grossomodo in queste due fazioni: quella composta da chi parla degli effetti negativi del fabbricone senza esserci mai entrato, e quella composta da chi ci lavora e non ne parla perché non ne ha interesse.
Chi potrebbe fare entrambe le cose soffre evidentemente su due versanti perché non riesce a moderare quelli che “abusano del farmaco”, né riesce a convincere gli altri a curarsi con il giusto dosaggio.
Anche io, come racconta Cubo nel suo articolo, “…ho conosciuto premi di produzione, rimborsi per le visite mediche, l’ebbrezza di una risposta fulminea della banca alla richiesta di mutuo. Ho visto colleghi trasformarsi in amici e la processione degli operai ai tornelli che strisciavano il badge come fedeli che si bagnano le dita nell’acquasantiera…”
Anche io ho imparato il linguaggio degli impianti, dei macchinari, la storia del sito e le storie dei vecchi operai come fossero leggende, a misurare il tempo in turni, ad attraversare strade deserte quando tutti dormono, a ridere ai pranzi a mensa con i colleghi o a piangere per quelli che sono andati via.
Oggi si parla sempre più di politiche green, transizioni energetiche e digitali, si parla di resilienza, circolarità, sostenibilità. Le decisioni importanti però vengono prese da persone in stanze lontane (il quartier generale della mia azienda è a Houston, i responsabili di Yara sono in Norvegia, le risorse umane di Versalis sono guidate da Roma).
Se anche questo vertice del quadrilatero della chimica padana venisse ridimensionato, non sapremmo come e in che modo riutilizzare gli spazi di questa pseudo Manhattan. Non siamo neppure riusciti a farci carico di quegli 80 ettari già bonificati con gran vanto della politica locale per essere stato il primo sito industriale italiano ad aver realizzato un gran piano di recupero di terreni inquinati.
Allo stesso modo, cioè con lo stesso vanto, oggi viene presentato il progetto di rilancio del petrolchimico cittadino. Quanti di quelli schierati, tra le due fazioni suddette, lo vogliono davvero e in che termini?
Non so se sia stato giusto costruire il “fabbricone” e non so se sia giusto che debba esistere ancora e a tutti i costi. Non so se i giovani (integrati o apocalittici) lo sceglierebbero come potenziale luogo di lavoro. Non so se passando dalla plastica vissuta dalla mia generazione come soluzione per tante applicazioni, alla plastica percepita dalla maggior parte delle persone come principale problema ambientale, ci sarà ancora lo spazio per un posto come questo.
Resta comunque il fatto che le batterie delle prossime automobili elettriche, le tastiere dei nostri strumenti elettronici, i medicinali che prendiamo quando ci fa male la schiena e poi le mascherine, gli stent, le siringhe e i tubi per trasportare acqua e gas, i cavi sottomarini per veicolare i segnali elettrici; tutte queste cose, insomma, continueranno ad essere fatte con la plastica e questa plastica verrà prodotta in posti simili al nostro fabbricone, magari non più situato qui a Ferrara, ma molto più probabilmente in Arabia, in Cina o perché no sulla Luna o su Marte.
Ogni giorno facciamo piccole cose che ci rendono complici o alleati degli apocalittici o degli integrati: ogni caffè fatto con la capsula, ogni indumento sportivo che compriamo, ogni volta che saliamo in macchina invece di prendere la bicicletta; ogni volta che lasciamo cadere a terra una mascherina, un tovagliolo, o che infiliamo una bottiglietta di plastica nel contenitore sbagliato. Ogni giorno cioè potremmo essere “uccisi” o “guariti” dal farmaco.
È facile oggi puntare il dito contro il nostro fabbricone: siamo nell’epoca generalizzati dei “veleni”, da quelli sociali a quelli social. Ma cosa avremmo fatto noi al posto di chi ha deciso la costruzione del fabbricone? Chi, oggi, risponderebbe al “senatore repubblicano americano” (https://www.cdscultura.com/2025/05/il-superfluo-indispensabile/) che le cose fatte qui nel nostro fabbricone dovrebbero servire a renderlo degno di essere difeso?
Non sono mai stato un integralista progressista né un ambientalista militante. Ho imparato a vivere in questa città con gli apocalittici e gli integrati, in una specie di clessidra contenente una sabbia né completamente avvelenata né completamente sana.
Quando i giovani mi chiedono cosa ne penso del fabbricone cerco di trovare le parole giuste, oneste che loro meritano di ascoltare, vale a dire che viviamo in una città bellissima, che senza il fabbricone si sarebbe spopolata più velocemente di quanto stia accadendo e che se io non mi fossi trasferito qui tra il castello di pietra e la Manhattan di plastica, probabilmente non ci sarebbero neanche le mie figlie.
E che tutto questa indeterminazione, ambiguità, incertezza non mi rende né migliore né peggiore tra quanti restano convintamente e assolutamente apocalittici o integrati.
Ai giovani dico che, in un certo senso, il “fabbricone” siamo tutti noi : quelli che non lo vogliono, quelli che lo difendono e quelli che prima di schierarsi avvertono urgente la responsabilità di conoscere bene le istruzioni d’uso e il dosaggio del pharmakon. E questo è vero per qualunque farmaco, toccherà loro usare.
Cover: il petrolchimico di Ferrara su licenza Creative Commons
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