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Sono possibili due interpretazioni della parola ‘crisi’. L’una segna la sequenza negativa: crisi-emergenza-catastrofe. Questa è la definizione che si è imposta negli ultimi anni e che è stata scientemente trasformata in una vera e propria ideologia dell’aut-aut: o si fa così, o salta tutto! In questa breve riflessione vorrei invece concentrarmi sull’altra interpretazione: la crisi come caratteristica positiva della modernità. E richiamo un classico del novecento, Paul Hazard Crisi della coscienza europea (Einaudi), pubblicato nel 1935.

L’opera tratta di un periodo preciso e pregnante della storia d’Europa: 1680-1715. E’ in questi pochi decenni, infatti, che si gettano le basi culturali per il passaggio alla modernità nel continente. “Quale contrasto! E quale brusco passaggio! La gerarchia, la disciplina, l’ordine che l’autorità s’incarica di assicurare, i dogmi che regolano fermamente la vita: ecco quel che amavano gli uomini del ‘600. La costrizione, l’autorità, i dogmi: ecco quel che detestano gli uomini del ‘700, loro successori immediati.”
In quel tempo nasce la nuova sequenza che caratterizza la modernità: critica-crisi-cambiamento. Ricordiamo che la parola ‘critica’ ha un’origine in comune con la parola ‘crisi’, dal greco xrinò: dividere, scegliere, giudicare, decidere, lottare, combattere. Critica e crisi come condizioni del cambiamento continuo: ecco la fenomenologia permanente e normale della modernità. Perché oggi dunque queste due parole fanno paura? Il potere è insofferente alla critica: all’intellettuale autonomo preferisce il cortigiano adulatore. Il cittadino normale vive la crisi come eccezione e catastrofe. Atteggiamenti premoderni entrambi, che permangono come un radicato residuo del passato nel tempo globale dello sviluppo massimo della modernità su tutti piani e in tutti i paesi.
Con questo si vuole forse negare la congiuntura mondiale di grande crisi e di grandi rischi che stiamo vivendo? No. Voglio sottolineare che la diffusa cultura premoderna non aiuta. Essa combina due atteggiamenti negativi. Quello del potere che chiede una delega totale e in bianco. E quello del cittadino che vive con angoscia e paura ogni novità e cambiamento. In entrambi i casi il risultato è un individuo pubblico impaurito, passivo, ripiegato su se stesso. In questo modo si crea soltanto separazione tra settori della società. Ma mentre in alcuni di questi si vive all’insegna della creatività e della sperimentazione continue -tecnica, scienza, arte e cultura in generale- in altri, come per esempio la politica, la nuova ideologia dell’emergenza sta bloccando le menti, impedendo ogni confronto serio sulle possibili alternative in campo.

Nel 1670 esce un’opera fondamentale della modernità: il Trattato teologico e politico di Benedetto Spinoza. Ecco come ne sintetizza il significato Paul Hazard: “Spinoza diceva pacatamente che bisognava fare ‘tabula rasa’ delle credenze tradizionali per ricominciare a pensare su piani nuovi […]. La religione aveva perduto la sua efficacia sulla morale, l’anima si era corrotta; e il male proveniva dal fatto che si era fatta consistere la religione non più in un atto interiore, meditato e persuaso, ma nel culto esterno, in pratiche macchinali, nell’obbedienza passiva alle prescrizioni dei preti. Degli ambiziosi si erano impossessati del sacerdozio e avevano convertito in avidità personale lo zelo del servizio: donde dispute, odi, gelosie. Così gli uomini venivano ridotti in bruti, avendo tolto loro il libero uso del loro giudizio, e soffocato la fiamma della ragione critica umana.” Si provi a sostituire alla parola religione la parola politica, alla figura del prete quella dell’odierno politico, e il ragionamento spinoziano conserva intatto il suo valore di diagnosi attuale. Oggi, infatti, la politica si presenta così: svuotata di ogni progettualità, ridotta spesso ad un affare per curare i propri interessi di casta, usata come un trampolino per realizzare ‘smisurate ambizioni’ personali.
Non a caso le parole chiave sono sondaggio e propaganda… non certo cultura e critica.

Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

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Fiorenzo Baratelli

È direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara. Passioni: filosofia, letteratura, storia e… la ‘bella politica’!

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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