Skip to main content

Saudade per Antonio Tabucchi. Un compleanno in assenza (per i suoi 80 anni)

C’è uno strano testo disperso di Tabucchi che si intitola Lettera a un editore (non inviata). Lo scrittore si chiedeva cosa mai potessero pensare di lui in un paese (il Portogallo) che, pur essendo stato fondamentale nella sua vita professionale e privata (basti ricordare i suoi anni di insegnamento della Letteratura portoghese nelle università italiane, e il fatto che sua moglie, Maria José de Lancastre, appartiene ad una nobile famiglia portoghese), non era la sua terra nativa, e rifletteva sui complessi codici di appartenenza che ci legano al mondo che ci circonda.

Insoddisfatto delle due categorie più evidenti, secondo le quali o si è autoctoni o si è stranieri, ne evocava una terza, suggeritagli dal termine portoghese di estranjerado con il quale vengono chiamati i portoghesi che vivono altrove e tornano a casa solo per le vacanze. Sono persone che non sono né autoctone né straniere, più o meno come lo era lui in Portogallo: autoctono per vocazione, ma straniero per nascita.

E questo nonostante il forte amore per il Portogallo, di cui aveva mirabilmente studiato la letteratura, mentre si sentiva a disagio nel paese natio: l’Italia neo-fascista e berlusconiana, che non si era mai stancato di stigmatizzare, al punto che – per una serie di circostanze – avrebbe finito per allontanarsene scegliendo di vivere piuttosto in Portogallo e in Francia.

Era estanjerado dunque anche in Italia, per l’Italia (dalla quale comunque non avrebbe potuto sradicarsi mai e di cui portava con sé dovunque quanto più contava, la lingua) mentre, per ovvi motivi, non poteva dirsi autoctono negli altri due paesi prescelti. Apparteneva a tutti e tre, e allo stesso tempo per ciascuno dei tre era dislocato altrove: estranjerado dovunque, mentre per cultura, passione, predilezione, perfino per lingua, era insieme italiano, portoghese e francese.

Insomma Tabucchi è stato un grande scrittore europeo, in un’Europa che non aveva (e non ha ancora) saputo/voluto abbattere le frontiere creando una comune societas. Ma chissà che questa mancanza di collocazione non abbia contribuito a nutrire, almeno in parte, la sua inquietudine, facendo di lui un intellettuale esemplare, il modello di quello che si può chiedere a un’arte narrativa in grado di unire maestria tecnica e impegno, invenzione e capacità di segnalare in modo lieve (come si conviene alla vera gravitas) un profondo turbamento esistenziale. In questo, e non solo in questo, insomma, il nostro autore era maestro, perfetto figlio di un secolo che si era avviato a Parigi, in anni nei quali negli altri paesi mancava – e sarebbe a lungo mancata – la libertà.

Gli scrittori devono avere due paesi, quello al quale appartengono e quello nel quale vivono realmente”, ha scritto Geltrude Stein nel suo Paris France.

Tabucchi di paesi ne aveva tre, ma diversamente da quanto scriveva la Stein (“Il secondo è ‘romanesque’, è separato da loro, non è reale, anche se è realmente là”), nessuno dei suoi era ‘romanesque‘, nessuno era separato da lui, ognuno era reale, anche se non era ‘realmente là’. Ma come sappiamo, la saudade – parola e malattia lusitana tanto cara ai suoi personaggi, alle atmosfere dei suoi racconti e romanzi – si nutre anche di questo.

Non è un caso allora che Tabucchi abbia scelto a proprio nume tutelare un poeta alloglotta e moltiplicato per eteronimi come Pessoa, che tramite un “baule pieno di gente” ha dato voce all’altro da sé realizzando la struttura cubica e ortogonale di una diffrazione della personalità.

Uno scrittore che ha scritto che “Tutto è noi e noi siamo tutto”, aggiungendo “ma a che serve questo, se tutto è niente?”, e che ha sostenuto che “la letteratura, come tutta l’arte, è la dimostrazione che la vita non basta” (è da qui che nasce non solo il tabucchiano Elogio della letteratura che apre il postumo Di tutto resta un poco – la sua splendida raccolta di saggi -, ma la conclusione: “Trovate un uomo a cui la vita basti: costui non farà mai letteratura”).

Il trascorrere da un luogo all’altro, da una patria all’altra (fino a vivere e a morire altrove, in quel Portogallo dove adesso riposa accanto ai grandi scrittori portoghesi), sono diventati un modo per tradurre nel quotidiano la transitabilità non solo della vita ma dell’arte.

Alla percezione di irreversibile e nostalgia, e al desiderio dominante di essere altrove, Tabucchi ha dato parola letteraria inventando storie nelle quali gli spostamenti, gli interscambi di città (Pisa, Roma, Parigi, Lisbona, Madrid…) e di personaggi sono frequenti, dove in definitiva a dominare è l’eterotopia, cioè un tempo (per definizione inafferrabile) che si concretizza in uno spazio tangibile che ricava però dalla sua singolare genesi una sorta di straniata consistenza.

Gli spazi della narrativa tabucchiana, benché localizzabili (anche se spesso è difficile essere veramente sicuri che ci si trovi in un luogo preciso) sono luoghi fuori dai luoghi, luoghi ripetibili, duplicabili, quasi anonimi. Gli incontri più significativi tra i suoi personaggi avvengono sui treni, negli scompartimenti ferroviari, nelle stazioni, negli ospedali, nei caffè, nelle biblioteche, nei musei.

A dominare è l’effetto specchio, che moltiplica l’io, lo confonde con l’altro, anche nel luogo che Foucault ha considerato eterotopico per eccellenza: il cimitero. Un luogo dove il tempo si accumula mentre perde la sua identità (come avviene anche nelle biblioteche e nei musei) e dove è possibile mantenere un contatto con l’assenza; un luogo dove, come nello specchio, si riflette ciò che non esiste ma che ci assomiglia e a cui si continua a dare un nome.

Il passaggio dall’eterotopia all’eterocronia diventa allora possibile; i tempi, i luoghi si sovrappongono, così come la partenza e il ritorno. Tutto si condensa e cerca significato nel luogo-non luogo ossimorico per eccellenza che domina l’inizio di uno dei suoi romanzi più belli (Requiem) e la città di Lisbona: il Cemitério dos Prazeres.

A moltiplicarsi ogni volta per i tanti suoi lettori, in ogni paese, in ogni lingua, è la suggestione della scrittura: quanto fa leggere e induce a tornare a rileggere i suoi libri (da Notturno indiano a Sostiene Pereira, dal Gioco del rovescio a Tristano muore, dalla profetica Testa perduta a Si sta facendo sempre più tardi…), trovandoli ogni volta diversi, ricchi di piste che avevamo perduto e/o dimenticato, sempre pronti come sono, quei libri, a divertire, ad appassionare, a sollecitare turbamenti e domande, non solo sulla finzione, ma sulla vita, sul suo destino, sul suo senso.

Nella cover: Tabucchi a Stoccolma nel settembre 2019 (© Anna Dolfi)

Per leggere gli articoli di Anna Dolfi su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

tag:

Anna Dolfi

Anna Dolfi, professore emerito dell’Università di Firenze (dove ha insegnato fino al 2018 Letteratura italiana moderna e contemporanea), è Socio Nazionale dell’Accademia dei Lincei. Tra i maggiori studiosi di Leopardi, di leopardismo, di ermetismo, di narrativa e poesia del Novecento, ha progettato e curato volumi di taglio comparatistico dedicati alle “Forme della soggettività” sulle tematiche del journal intime, della scrittura epistolare, di malinconia e malattia malinconica, di nevrosi e follia, di alterità e doppio nelle letterature moderne, e raccolte sul tema dello stabat mater, sulla saggistica degli scrittori, la riflessione filosofica nella narrativa, il non finito, il mito proustiano, le biblioteche reali e immaginarie, il rapporto tra notturni e musica, letteratura e fotografia, ebraismo e testimonianza. Dopo due libri su Tabucchi (“Antonio Tabucchi, la specularità, il rimorso”, 2006; “Gli oggetti e il tempo della saudade. Le storie inafferrabili di Antonio Tabucchi”, 2010), ha curato per la Feltrinelli l’ultimo, postumo libro di saggi dello scrittore (“Di tutto resta un poco. Letteratura e cinema”, 2013). Su Bassani imprescindibili i suoi libri che ne leggono l’intera opera alla luce della malinconia e delle strutture e proiezioni dello sguardo (“Giorgio Bassani. Una scrittura della malinconia”, 2003; “Dopo la morte dell’io. percorsi bassaniani ‘di là dal cuore'”, 2017). A sua cura l’edizione critica e commentata delle “Poesie complete” di Bassani (Feltrinelli, 2021).

Comments (3)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it