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di Elena Buccoliero

Certe conversazioni sono immersioni. Non è così un momento prima né un attimo dopo. Passeggi con quella persona, scambi qualcosa di tuo con cenni divertenti o profondi apparentemente qualsiasi: il testo di una canzone, un ricordo di scuola. È un percorso di avvicinamento, entrambi sappiamo che ci stiamo cercando come cerchi una stazione radio quando sei in viaggio. Poi ti fermi e stabilizzi il contatto e così con Andrea. Entri in quel territorio aspro dove insieme si è deciso di andare, che anzi ci si è incontrati apposta. Se ne uscirà poi, un poco straniti. Vicini e distanti, per quanto è stato forte tutto ciò che hai mostrato, tutto ciò che hai guardato in quel tempo insieme.
Così è stato incontrare Andrea, la sua ricerca interiore e la generosità con cui ha accettato di condividerla.

LA TESTIMONIANZA DI ANDREA – PRIMA PARTE

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Foto del concorso europeo indetto dalle Nazioni Unite per la lotta alla violenza sulle donne

Si dice nell’ambiente psicanalitico, e non ci volevo credere, che chi subisce violenza agisce violenza. Lo capisci nel tempo: chi ha preso le botte le ridarà. Nella vita familiare mi vengono degli attacchi d’ira improvvisi, furenti, che non mi riconosco.
Prima di avere una famiglia mia non ce li avevo. Da piccolo sì, ricordo un episodio in cui mio padre ha sforato e io ho spaccato un orologio, un’altra volta una porta – e guarda caso mio padre non mi disse niente. Ero impaurito da matti della sua reazione, ero un bambino, invece è stato zitto e ha cambiato la porta. Lì per lì non capivo ma adesso mi rendo conto che solo così ti ascolta. Sul piano della violenza, del sopruso, lui ti rispetta – perché ti riconosce. Se no ha la tendenza a sopprimerti con la sua violenza. Fisica, verbale di tutti i tipi. Anche al telefono, se lo mandi affanculo dopo ti richiama più tranquillo, se gli parli cercando di affrontare il discorso in termini pacati lo confondi. Non ha mai sviluppato la capacità di autoascolto, autoriflessione, è sempre scappato da se stesso e non è a suo agio con un “parliamone”.

IN FAMIGLIA
Sono il più giovane di quattro fratelli. È stata un po’ la mia fortuna. Tra me e la maggiore corrono nove anni di differenza e lei ci ha spianato la strada in molte cose. Le mie sorelle, che sono le due più grandi, hanno vissuto quelle briciole di ‘68 che in Italia è stato il ’77 perché erano già adulte, io avevo 13 anni e ho vissuto di riflesso una certa contestazione verso il sistema, il padre, il modello che i genitori stavano trasmettendo – e nel mio caso un non modello, basato sulla violenza. Mi hanno aiutato molto, da solo non sarei dove sono adesso.
Era un attimo. Anni che girava la droga e noi non siamo, nonostante tutto, dei disgraziati. Ognuno di noi ha le proprie paturnie, che cura o nasconde a suo modo, ma non siamo dei disgraziati e questo vuol dire che qualcosa di sano da qualche parte c’era. Forse proprio il rapporto tra di noi.
Una delle mie sorelle già a 16-17 anni contestava un po’ l’atteggiamento di mia madre. Studiando il comportamento animale si dice che a volte è la gazzella che “provoca” il leone, la vittima che cerca il carnefice. Con questo non ti sto dicendo che era colpa di mia madre, probabilmente era nel suo inconscio comportarsi da vittima ma in molti casi lei ha proprio provocato. Con il linguaggio, con un certo dargliela su ha avvalorato, per paura o per inconscio o per retaggi culturali, una famiglia come la mia. Poteva andarsene o reagire in vari modi molto tempo prima. L’ha fatto subito dopo che mi sono laureato io. Finché l’ultimo figlio era ancora da sistemare, nella sua logica di 17enne sposata incinta, è rimasta con suo marito.

Si erano sposati per amore?
C’è un’altra domanda? Io l’unica volta che li ho visti abbracciarsi e baciarsi ho provato ribrezzo, ce l’ho ancora fisso in testa.

Perché?
Non tolleravo che mio padre avesse quella faccia lì. Perché mio padre – a parte essere dall’esterno una persona splendida, la più simpatica del mondo – è davvero una persona violenta.

Era conosciuto così, come persona disponibile?
Gli altri non capivano assolutamente niente di quello che succedeva in famiglia. Lo vedevano sempre presente, il braccio destro del prete, iscritto – lui dice “convinto” – all’allora Dc, come ora è iscritto al Pd perché fondamentalmente sta dalla parte di chi governa. “È convinto di avere delle idee”, canta De Gregori.

Che lavoro faceva?
Lavorava in un ente regionale. In realtà si presentava in ufficio, staccava il telefono e andava in giro a fare altre cose, principalmente impianti elettrici e idraulici. Diceva sempre che guadagnava poco e in casa non dava niente, non ho mai capito come abbia fatto mia madre a mettere a tavola quattro bimbi – anzi cinque, lui compreso – tutti i giorni mattina e sera.

Era tirchio?
Non vedevamo quasi mai un soldo. Da grande mi hanno detto che con quegli impianti era molto bravo, e anche molto caro: non l’avevamo mai saputo. Ricordo che dopo la scuola a volte rimanevo in strada con i miei fratelli – facevo le elementari -, stavamo fuori delle ore saltando il pranzo perché mia madre diceva: “restate fuori che oggi dobbiamo discutere”, cose come “dammi un po’ di soldi che non so più come fare la spesa”, e noi terrorizzati su cosa avremmo trovato rientrando in casa.

UNA LETTERA DI RINGRAZIAMENTO
Quando rimasi incinto della mia prima figlia ho scritto una lettera, identica per mio padre e per mia madre, anche se erano già divorziati e io ero scazzato con lui, ringraziandoli perché non mi hanno mai fatto mancare niente dal punto di vista materiale. E non è mica scontato! Non ricordo un giorno che non ho avuto un posto che potessi chiamare mio, e il necessario per mangiare, vestirmi, e le tante cure mediche di cui ho avuto bisogno.
La casa era dei miei nonni materni. L’avevano proprio costruita loro. Alcuni dicono sia stato uno dei motivi, o l’unico, per cui mio padre ha sposato mia madre. Nel dopoguerra essere dei diciassettenni pimpanti voleva dire sposarsi, il principale obiettivo di quella generazione era mettere su famiglia, la mamma in casa coi bambini e il papà a lavorare, quando ancora bastava un reddito, adesso a volte non ne bastano due.
Io non sono sicuro di esser stato desiderato e tanto meno cercato. Era una cultura in cui un figlio, se capita, si accetta, e mia madre l’ha fatto. Non posso rimproverarle niente. Anche mio padre nel suo modo, ma fosse stato solo per mio padre la famiglia non andava avanti.
In compenso ha cercato di fare la persona acculturata. Partecipava a un gruppo di studio cristiano un po’ in contrasto con la chiesa ufficiale. Ma mio padre non ha niente di cattolico, se parliamo di compassione, di pietas.

Avete mai provato a parlarne fuori di casa?
Lo dicevamo ma non ci credevano. Io più volte da piccolo, con miei coetanei, ho detto “se potessi gli spaccherei la faccia”. Magari ci aveva rullato di botte, mia madre era al pronto soccorso, ma la risposta non cambiava mai: “è sempre tuo padre”. Però lui, non posso dire che sia stato un padre. Tutt’al più un genitore. Se il padre è chi sostiene la famiglia, la incoraggia, dà il buon esempio, educa (con l’accezione – secondo me discutibile – di dire ai figli cosa è giusto e cosa è sbagliato), non posso dire di avere avuto un padre. Prendeva a ceffoni mio fratello perché fumava, ma ha fumato anche lui e appena finite le botte gli metteva le sigarette in tasca. Era una contraddizione continua.
Penso che uno dei mali più grandi, oltre a picchiare un bimbo, siano le botte che un bimbo vede. Mi ha fatto male vedere mia madre presa a botte, e poi in un paese connivente. Quante volte abbiamo cercato di scappare di casa e i vicini non aprivano la porta! Tutti sapevano, sentivano. Nessuno ci ha mai aiutato. Io ho pensato tante volte di affrontarlo ma non l’ho fatto perché il suo tipo di violenza lo avevo talmente impresso che bastava alzasse la voce perché cominciassi a tremare.
Una volta in un litigio furente mia sorella ha chiamato i carabinieri, lo portarono in caserma e penso gli diedero un sedativo, per come tornò. Noi in fretta e furia abbiamo preparato due valigie, mia nonna materna compresa che era già anziana, e siamo scappati. Sulla scala di casa lo abbiamo incrociato. Noi terrorizzati, “ora ci riempie di botte”, sai cosa doveva essere per lui l’affronto, la denuncia, il disonore, invece è stato come se non ci avesse visti. Siamo scappati dalla mia sorella maggiore, ci potevamo sistemare tutti, invece mia madre decise di tornare da lui. Io mi sono trovato un appartamento un po’ fuori città e andavo da lei tutte le domeniche, sapendola a casa da sola con mio padre non eravamo tranquilli.
Sai quante volte l’ho accompagnata al pronto soccorso e lei ha dichiarato che era caduta? Lui la picchiava poi andava via. La accompagnavamo noi, diceva che era caduta. Il medico cercava di parlarci, “Se lei dichiara che l’ha picchiata noi facciamo la denuncia”.

Chissà quante volte avrai avuto voglia di dirlo tu, al medico, come stavano le cose.
Sì, ma devi pensare che ero un ragazzino. Abbiamo provato anche a farlo fuori, in maniera fanciullesca, senza riuscirci. Cose tipo svitargli le ruote della macchina… Non si è mai fatto male.
La tentazione di farla finita in maniera cruenta c’è stata. Una volta mia sorella gli è saltata addosso e io ho avuto proprio paura: questi si ammazzano. Non ho mai visto in mia sorella quella violenza lì. Gli è saltata agli occhi e lì lui ha smesso di picchiarci. Il nostro atteggiamento solito invece lo debilitava. Lo mandava in un mondo che non sapeva gestire, e reagiva con la collera. Quando qualcuno lo affrontava – anche con mio fratello qualche volta si sono picchiati forte – allora si fermava.

UNA SEPARAZIONE TARDIVA

Poi tua madre ha deciso la separazione.
Le poche volte che ho parlato a mio padre dopo la fuga di mia madre, non si dava pace che una donna potesse vivere da sola. Mio padre ha sempre avuto un certo concetto delle donne: sono tutte troie e devono servire l’uomo. Parlando a quattrocchi davanti a un bicchiere di vino te lo dice esplicitamente, ma traspira da ogni poro. Se sua moglie è scappata di casa dev’esserci un altro, non può dire a se stesso “è scappata da me”.

Quanti anni aveva tua madre quando è andata via?
Sessanta esatti. Ha aspettato la mia laurea, però lei già prima, piano piano aveva portato una camicetta dalla cugina, un maglioncino dalla zia… ha preparato tutto e un bel giorno non è più tornata. Ha cambiato città. È stata per un periodo in albergo, diversi alberghi per paura che lui la trovasse. Da noi figli lei non poteva venire perché lui l’avrebbe ripresa subito.

Anche prima della tua laurea eravate già tutti e quattro indipendenti.
Sì, ma restava in mia madre la dipendenza psicologica da un voto forse inconscio e poi divenuto consapevole, come se solo allora potesse dire: “il mio compito l’ho fatto, posso pensare a me stessa”. In maniera maldestra, perché poco dopo le è partita la testa. E per quanto si dica che il cosiddetto Alzheimer viene a chiunque, se per 43 anni non puoi chiederti cosa stai pensando e prendi le botte, la mente non è cosi contenta. Mia sorella dice che non è vero, per me un nesso con la malattia c’è ma se anche non ci fosse, mia madre meritava di vivere una vita pensando a se stessa per qualche anno. All’inizio aveva provato: qualche sera a teatro, le amiche, si era iscritta al circolo degli anziani… poi le è partita la testa e ormai non sempre mi riconosce. Fisicamente è in forma ma la testa non c’è’ più da tempo.
Meritava almeno altri trent’anni per recuperare la sua vita. Qualunque fosse, perché per me non lo sapeva neppure. Quando per quarant’anni non ricevi mai ascolto, sei sempre in conflitto e non in quello sano, costruttivo, ma nella violenza, non cresci la tua vita, cresci la vita di un altro. Nel suo caso quella dei figli. Lei ha dato la vita per i figli, veramente. Mi sono messo vagamente poche volte nei panni di mia madre e mi sono trovato anch’io a chiedermi chi cazzo sono e cosa penso.
Mio padre… Mangiavi all’ora che voleva lui, a cena c’era il tg e bisognava stare tutti zitti ad ascoltare perché dopo t’interrogava. Io passavo il tempo a dirmi: “se ora mi chiede cosa sto pensando posso dire questo. No, se dico questo s’incazza e mi mena mezz’ora. Allora quest’altro… No, non va bene”. Così, tutto il tempo a cercare qualcosa da dire. Perché di punto in bianco lui ti poteva chiedere: “Cosa stai pensando?” e se rispondevi magari la verità, ma non lo convincevi, attaccava: “Non fare il furbo con me!”. Volavano i bicchieri e le sedie, mai le parolacce. E penso, quelle poche volte nei panni di mia madre, come dev’essere vivere 43 anni così, senza poter pensare.
Tutti i giorni dopo pranzo andava al bar a fare la partita a carte, era il rito del padre di famiglia, mentre lei sgobbava. Poche volte l’ho vista sdraiarsi un attimo sul divano o leggere un libro, ma se in lontananza sentiva la macchina di mio padre che rientrava si alzava di scatto perché la donna deve sgobbare, non poteva farsi beccare in un momento di relax. Quarantatre anni cosi. Tradimenti, continuamente, dicono anche durante il viaggio di nozze a Venezia. Una ignominia indescrivibile.

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Elena Buccoliero è sociologa e counsellor, da molti anni collabora con Azione Nonviolenta, rivista del Movimento Nonviolento. Per il Comune di Ferrara lavora presso l’Ufficio diritti dei minori. È giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Bologna e direttore della Fondazione emiliano romagnola per le vittime dei reati.

Questa testimonianza è stata pubblicata la prima volta su Azione Nonviolenta, il periodico del Movimento Nonviolento che ha dedicato un numero tematico alla violenza di genere. La ripubblichiamo qui per gentile concessione dell’autrice, in occasione della “Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”.

Per saperne di più sulla nonviolenza in Italia e nel mondo [vedi]

Altri articoli pubblicati da ferraraitalia sulla ricorrenza della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”: alcuni dati [vedi] e la celebrazione del 22 novembre a Ferrara [vedi]

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Redazione di Periscopio

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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