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Una settimana fa si è svolto il secondo turno delle elezioni per l’ Assemblea legislativa in Francia. Giustamente si è detto che quell’esito elettorale segnala alcuni punti di forte novità nel panorama politico francese: 1 Macron perde la maggioranza assoluta e non potrà più governare da solo. 2 Viene avanti una forte affermazione della NUPES (Nuova Unione popolare, ecologica e sociale) guidata da Melenchon. 3 C’è una affermazione significativa della destra estrema di Le Pen.

Non tutti questi elementi possono, però, essere messi sullo stesso piano. A me pare che la novità di gran lunga più rilevante, dal punto di vista politico, sia la forte crescita della NUPES di Melenchon. Avanzo questo ragionamento anche perché, in modo che a me pare per nulla disinteressato, i nostri grandi media mainstream hanno presentato la vicenda elettorale francese come caratterizzata, in primo luogo, dalla sconfitta di Macron e, ancor più, dalla forte avanzata della destra.

Il raggruppamento elettorale di Macron Ensemble! ottiene il 38,6% dei voti e 245 seggi, ben al di sotto della maggioranza assoluta pari a 289 seggi, e, soprattutto, ne perde quasi un terzo rispetto a quelli che aveva nel 2017. Macron paga giustamente l’elitarismo sia delle sue politiche sia della sua immagine.

Il Rassemblement National di Marine Le Pen fa un grande balzo nei seggi assegnati (dagli 8 parlamentari del 2017 agli 89 di oggi), ma molto meno in termini percentuali (che continua a rimanere il dato più importante), passando dall’ 8,7% del 2017 al 17,3% di oggi. Un risultato che è il prodotto di due elementi: il sistema elettorale francese a doppio turno e l’inedito smottamento di voti centristi, dagli elettori di Macron a quelli degli eredi del gollismo di Les Republicaines, verso l’estrema destra.

Il sistema elettorale francese per le elezioni legislative funziona in termini tali che al secondo turno, quello che decide sull’elezione dei candidati ( a meno che al primo turno uno di essi superi il 50% dei voti), sono presenti quelli che al primo turno hanno superato le soglia del 12,5% e sostanzialmente si risolve in un pronunciamento tra il primo e secondo arrivato al primo turno. Ora, in questa tornata elettorale, per la prima volta, si è verificato che in numerosi collegi elettorali – circa 61- gli sfidanti erano rappresentanti di NUPES e della destra di Le Pen e, secondo quando ricostruito da Le Monde, solo “16 [candidati macronisti] hanno chiaramente fatto appello a votare per il loro ex-rivale di sinistra, e altri 16 a non votare il Rassemblement National”, mentre la maggioranza ha rifiutato di dare alcuna consegna ai propri elettori. Quello che è venuto meno, in buona sostanza, è stato il “fronte repubblicano” che ha funzionato fino al 2017, in base al quale, comunque, esisteva un argine e non si verificava un travaso di voti tra tutte le forze politiche centriste e di sinistra e l’estrema destra.

Anche alla luce di questa lettura, diventa evidente che il vero vincitore di questa tornata elettorale in Francia, è la NUPES di Melenchon.
Essa conquista 131 seggi rispetto ai meno dei 60 che le varie forze che hanno dato vita alla coalizione avevano nel 2017 e, soprattutto, in termini percentuali, triplica i propri consensi, passando da poco più del 10% di 5 anni fa al 31,6% di oggi.
Soprattutto, ciò che emerge, senza sottovalutare le difficoltà incontrate e che si ripresenteranno nel dar vita ad una vera e propria alleanza coesa, è che attorno a NUPES si è coagulato un reale blocco sociale nuovo, composto dai settori sociali più deboli, dalla classe operaia al nuovo lavoro povero e precario, e da un ceto intellettuale, soprattutto giovanile e urbano, che fa sì che NUPES si afferma sia nelle banlieue che nei centri urbani importanti, nella classe lavoratrice così come nelle nuove forme del lavoro intellettuale.

Probabilmente questo è ciò che più spaventa l’establishment nostrano e d’Oltralpe, che, per questa ragione, preferiscono costruire una narrazione per cui lo scontro si gioca tra europeisti e modernizzatori contro il populismo antieuropeo e retrogrado della destra (salvo poi cedergli voti) oppure provando a dipingere il nuovo corso della sinistra francese come una variante di questo stesso populismo. Il punto è che, invece, una sinistra che si pone obiettivi radicali di redistribuzione del reddito, lotta alla precarietà, riduzione dell’orario di lavoro, rilancio del ruolo pubblico e dello Stato sociale, a partire dalle pensioni, prefigurazione di un modello produttivo che incorpori una giusta transizione ecologica (vedi  [qui]  il programma di NUPES) viene percepito dalle classi economiche dominanti e dalla politica che le sostiene come una reale minaccia alla prosecuzione alle politiche neoliberiste che, in varie forme, hanno costruito negli ultimi decenni. Da qui la necessità di ridimensionare chi si fa portatore di tali istanze, ma anche la non confessata ammissione che è in campo un’opzione alternativa potenzialmente forte e capace di mettere in discussione quelle politiche.

Questa considerazione mi aiuta anche a tornare alle vicende nostrane. Infatti, anche nel nostro Paese, diventa sempre più evidente che l’intreccio tra ricorso alla guerra e le sue conseguenze, crisi economica e sociale, crisi energetica-ecologica e sanitaria (che non è finita) assume sempre più l’aspetto di una crisi sistemica, che penso emergerà con ancora più forza nei prossimi mesi e può, almeno potenzialmente, indebolire, se non mettere in seria difficoltà, l’impianto fondato sul mix di centralità del mercato e neoautoritarismo del governo Draghi.

Una possibile avvisaglia di questo l’abbiamo vista in quest’ultimo periodo di tempo nelle vicende del ddl concorrenza. Esso ha concluso il proprio iter di discussione al Senato e ora passa alla Camera dei Deputati: in questo passaggio, quel provvedimento, intriso di un’impostazione di forte privatizzazione di tutti i fondamentali servizi pubblici e di ritrazione del ruolo del pubblico, ha mantenuto le sue caratteristiche di fondo, ma almeno è stato bloccato per quanto riguarda l’intenzione di ostacolare la gestione pubblica dei servizi pubblici locali, dal servizio idrico a quello dei rifiuti e altri ancora.
Infatti, l’art.6, quello che sanciva appunto tale scelta, è uscito riformulato dalla discussione in Senato e ora non prevede più le norme regressive che imponevano che, se un Ente locale voleva affermare la gestione pubblica di tali servizi, doveva passare attraverso la definizione di una relazione anticipata che giustificava la bontà di quella scelta rispetto al mancato ricorso al mercato e trasmetterla all’ Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, suggerendo, ovviamente, a quest’ultima di intervenire. Si è arrivati a quest’esito, ancora parziale e su cui occorrerà ancora vigilare, perché, nella voluta indifferenza dei grandi media, in realtà si è messo in campo un’efficace e importante iniziativa, promossa da numerose realtà e movimenti sociali, a partire dal Forum Italiano dei Movimenti per l’acqua.

Essa si è alimentata di vari ingredienti, che, messi insieme, hanno prodotto quel risultato: una mobilitazione sociale diffusa, con giornate di manifestazioni territoriali e nazionali, il coinvolgimento degli Enti locali territoriali (sono stati più di 60 i Consigli comunali e regionali che hanno approvato ordini del giorno per lo stralcio o la modifica dell’art.6, tra cui quelli di Torino, Milano, Bologna, Roma, Napoli e molti altri ancora), un’interlocuzione importante con le forze politiche più sensibili ai temi avanzati, dai gruppi parlamentari di LEU a quelli di ManifestA e Alternativa, da Sinistra Italiana e Rifondazione Comunista al M5S, almeno in parte, che hanno fatto breccia anche in una certa “debolezza” del governo Draghi, interessato, alla fine, a presentare più un risultato di immagine che di sostanza all’UE.
Senza adesso menare trionfalismi, né illudersi che quanto prodotto sia una ricetta valida per tutte le battaglie da compiere, rimane il fatto che il governo ha dovuto fare marcia indietro su una questione di una certa rilevanza. In ogni caso, come recita il proverbio, “se una rondine non fa primavera”, cerchiamo, però, di lavorare perché effettivamente ci sia un cambio di stagione.

Cover: 2013, Jean-Luc Melenchon a Tolosa, giugno 2013  (Wikimedia Commons)

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Corrado Oddi

Attivista sociale. Si occupa in particolare di beni comuni, vocazione maturata anche in una lunga esperienza sindacale a tempo pieno, dal 1982 al 2014, ricoprendo diversi incarichi a Bologna e a livello nazionale nella CGIL. E’ stato tra i fondatori del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua nel 2006 e tra i promotori dei referendum sull’acqua pubblica nel 2011, tema cui rimane particolarmente legato. Che, peraltro, non gli impedisce di interessarsi e scrivere sugli altri beni comuni, dall’ambiente all’energia, dal ciclo dei rifiuti alla conoscenza. E anche di economia politica, suo primo amore e oggetto di studio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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