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Ferrara film corto festival

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13 Settembre 2014

L’ultimo ebreo di Cork

Tempo di lettura: 5 minuti


Da DUBLINO – Una sera di dicembre a Cork, qualche anno fa. Le giornate finiscono presto e alle cinque è già notte. Esco dall’ufficio e decido di tornare a casa a piedi. La nebbia sale dal fiume e dai campi attorno alla città, bagna le strade e gli edifici, attenua la luce gialla dei lampioni. Prendo la strada che passa dietro al porto e si dirige verso il centro. La zona degli “Hibernian Buildings”, chiamata anche Marina. Piccole case in mattoni cotti a due piani, tutte uguali, tutte attaccate una all’altra. Le strade lunghe e strette sono deserte, passa solo qualche auto veloce. L’impressione di essere in un quartiere fantasma. Poi un particolare ti colpisce. Le luci dei magazzini sul fiume si riflettono sui muri bagnati e noti un candelabro a sette braccia (menorah) dietro ad una finestra. Dall’altra parte della strada un negozietto, forse un ciabattino, con l’insegna “Shalom”. Il tutto sembra prendere un aspetto surreale, quasi magico. Poi d’un tratto inizia a piovere, ed ora voglio solo tornare a casa in fretta.
Giro l’angolo e imbocco South Terrace street. Ancora dieci minuti e sono arrivato. E lì, l’ultimo tassello del mosaico. Alla fine della strada, al civico 10, stretta fra un condominio ed un garage vedo la Sinagoga. La stella di Davide sopra la porta di ingresso. Da buon ferrarese intuisco di avere attraversato il “ghetto” (che a onor del vero, come vedremo poi, qui non c’è mai stato), o quantomai un piccolo quartiere ebraico. Piccole immagini immagazzinate nella memoria di una sera di dicembre, mentre accelero il passo e penso distrattamente a cosa prepararmi per cena.

Solo anni dopo, durante un trasloco, mi ritrovo a vivere in quel condominio di fianco alla Sinagoga, a due passi dal quartiere di strade strette dalle piccole case in mattoni cotti. E dalla bottega “Shalom” che nel frattempo non c’è più, ha chiuso. E lì, uscendo una sera da casa, noto che la porta della Sinagoga è aperta. Una lunga fila fuori, vi è una presentazione della storia della comunità ebraica di Cork. Mi accodo, sono curioso di vedere l’interno dell’edificio. Mi viene dato un kippa da appoggiare sulla testa e mi siedo sulla balaustra al secondo piano, spazio che un tempo era destinato alle donne durante la funzione religiosa.
La presentazione è breve ma interessante: la prima piccola comunità ebraica arriva a Cork verso fine ‘700. Poche famiglie portoghesi di origine sefardita, una quarantina di persone, di cui si sa poco, che probabilmente si integrano negli anni con la comunità protestante locale, tramite matrimoni misti, fino a scomparire. Il loro piccolo cimitero fu scoperto, proprio dietro l’attuale sinagoga, durante i lavori di ristrutturazione delle fondamenta di un edificio. La seconda comunità arrivò in città a fine Ottocento. Questa volta da est, di origine ashkenazita; partirono dalla zona di Kaunas in Lituania, probabilmente con l’intenzione di arrivare in America. Qualcosa però sembra sia andato storto durante il viaggio in nave: invece di arrivare a New York scesero a Cobh (che allora era un porto importante, l’ultimo toccato dal Titanic nel 1912 prima di affondare), nella zona di Cork. La leggenda dice che fu un errore di comunicazione. Gli ebrei parlavano solamente Yiddish e sentendo “Cobh” credettero di essere arrivati a (New) “York” (i nomi delle due città hanno un suono molto simile in inglese). Percorsero a piedi i venti chilometri fino a Cork e si installarono nella zona della Marina, dietro al porto. Leggenda o memoria che si tramanda, si dice che una folla di irlandesi curiosi circondò i nuovi arrivati. Un prete fu chiamato in fretta e furia per rassicurare i locali, evitare un incidente diplomatico e spiegare che si trattava di una comunità ebraica arrivata dalla Russia (al tempo Kaunas era parte della Russia zarista), di lasciarli tranquilli e tornare tutti ai propri affari. Fu così che i nuovi arrivati lentamente si insediarono, altre famiglie seguirono dalla Lituania rassicurate che in Irlanda vi era tolleranza religiosa e la popolazione locale fondamentalmente amichevole. I Pogrom sarebbero stati solo un ricordo. Fu creato il cimitero.
Con il passare degli anni venne fondata l’attuale Sinagoga, la scuola (mi sorprendo a sapere che prima di diventare un condominio, il palazzo in cui vivo ospitava due scuole ebraiche), le società sportive: vi erano a Cork due squadre di calcio ed un tennis club. La comunità si estese e raggiunse un totale di quasi 500 membri nel periodo tra le due guerre. E poi il lento declino; il dopoguerra e, negli anni a seguire, la decisione di molte famiglie di lasciare Cork per il nuovo stato di Israele o per l’America. Le funzioni in Sinagoga sempre più rare, per la difficoltà crescente di raggiungere il quorum minimo (minian) di dieci maschi adulti per la preghiera pubblica ebraica.

Mi torna in mente questa storia oggi, mentre in un momento di noia trovo un’intervista a Fred Rosehill. Una faccia già vista, mi ricordo di quell’uomo anziano mentre presentava la storia della sua comunità in una sinagoga gremita al culmine, una sera di qualche anno fa. E mai avrei pensato che fosse l’epilogo di una storia, o almeno della storia di questa particolare comunità partita più di cento anni fa dalla Lituania. Perché Fred Rosehill è il capostipite dell’ultima famiglia ebrea rimasta a Cork, l’ultima delle famiglie partite più di cento anni fa da Kaunas.
Una storia che sta per chiudersi, e che mi piace chiudere con le parole che Rosehill ha pronunciato durante un’intervista alla trasmissione Irlandese “Nationwide” l’anno passato: “Per anni, per più di 80 anni, ho partecipato alle funzioni religiose nella Sinagoga di South Terrace. Ho delle memorie molto belle, memorie di amici, matrimoni, nascite. Momenti felici ed anche momenti infelici. E (Cork) è la sola città che conosco: dopo la morte di mia moglie ho provato a viaggiare ma mi sono scoperto essere uno straniero a Londra, uno straniero a Tel Aviv, uno straniero a Miami. C’è solo un posto al quale appartengo. Sono nato e cresciuto qui. Sono un irlandese

Per maggiori informazione e vedere l’intervista integrale di Fred Rosehill visitare il sito [vedi]

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Vittorio Sandri

Vittorio Sandri, nato e cresciuto a Ferrara, si e’ diplomato al Liceo Ariosto della città estense, al quale ha fatto seguito un percorso di studi in scienze politiche iniziato presso l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna e proseguito a Parigi presso l’Institut d’Etudes Politiques (Sciences Po) con l’ottenimento del Diplôme du programme international e terminato con il successivo conseguimento della Maîtrise en science politique all’ Université Paris Nanterre. L’autore ha trascorso lunghi perriodi in Europa tra Spagna, Francia e Inghilterra. Tutt’ora vive e lavora all’estero anche se considera la citta della metafisica, immutabile nella sua bellezza, un porto senza mare nel quale e’ sempre possibile fare ritorno.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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