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Presto di mattina. Le ceneri della poesia

Poesia in cenere

La poesia lascia una traccia anche sulla cenere; scrive sulla cenere anche quando la muove il vento e la sparpaglia ovunque, perché la poesia è – anche per lo scrittore e poeta polacco Czesław Miłosz – «inseguimento appassionato del reale» (facendo proprie le parole di un altro poeta lituano Oscar Vladislas de Lubicz Milosz).

Poesia è inseparabile compagna dell’umanità, generativa di un movimento del reale che è dentro e tuttavia va ben oltre la cenere del tempo. Per Miłosz la funzione della parola scritta e segnatamente della poesia è quella di preservare «il sentimento di umanità», non solo quello passato o presente, ma quello per l’avvenire.

Urlando, l’orrore nell’esili mani,
cadevi giù, dove regna cenere
e tesserci non possono il giaciglio
né abeti del nord né tuie italiane.
Che cosa tutto questo fu, è e sarà –
col nostro grido colmammo il mondo.

Tutto trascorso, tutto dimenticato,
sulla terra solo fumo, nuvole morte,
e sui fiumi di cenere ali che ardono
mentre arretra il sole avvelenato
e l’alba della condanna esce dai mari
Tutto trascorso, tutto dimenticato,
è dunque ora che tu sorga e corra,
anche se ignoti lo scopo e la sponda,
tu vedi solo che il fuoco brucia il mondo.
(Czesław Miłosz, Poesie, Adelphi, Milano 21; 24)

«La fede nell’esistenza di una realtà oggettiva oltre le nostre percezioni si è però indebolita, e questo sembra essere uno dei fattori alle origini della cupezza della poesia moderna, che appare come colpita dalla perdita della propria ragion d’essere… Ma davvero “non esiste affatto un mondo vero”?

Il Novecento, purtroppo, ci ha insegnato il modo più semplice per verificare se qualcosa è reale: il dolore fisico. Ciò è accaduto per effetto dei tormenti subiti da un numero enorme di persone, sia nelle varie guerre sia nella morsa del terrore politico… La gente ha sempre sofferto il dolore fisico, la fame, la schiavitù. Ma tutto ciò non arrivava a essere di dominio pubblico, com’è oggi possibile grazie al rimpicciolimento del pianeta e alla diffusione dei mass media» (Miłosz, La testimonianza della poesia, Adelphi, eBook 2022, senza numerazione).

Così la poesia diventa memoria e aspirazione del (e al) reale, vivendo senza posa del suo inesausto «desiderio di mimesi» di rappresentare e trasmettere una realtà: «Puro, violento, il mondo di nuovo ribolle/ E non cessa la memoria né l’aspirazione» (Poesie, 147). «L’atto stesso di dare un nome alle cose presuppone la fede nella sua esistenza e dunque in un mondo vero» (La testimonianza della poesia).

Le ceneri di Babij Jar

Polvere di cenere sono anche le poesie che hanno accompagnato il ricordo dell’eccidio degli ebrei di Kiev. Nella prossimità della città in una gola e profonda voragine che ha nome Babij Jar fra il 29 e il 30 settembre 1941 le truppe tedesche sterminarono, a colpi d’arma da fuoco, 33.771 ebrei.

Su questo eccidio, uno dei tre più grandi dopo quello di Odessa (50.000 ebrei assassinati) e di Emtefest in Polonia (42.000 vittime), scrisse un romanzo documento Anatolij Kuznecov (1929-1979). Un eccidio del quale per anni non si era potuto parlare, tradotto da Adelphi e la cui prima edizione digitale è del 2019: Babij Jar. Romanzo documento, Adelphi eBook, Milano).

Si legge nella prefazione dell’autore: «Il manoscritto originario di questo libro lo portai alla rivista Junost [Gioventù] nel 1965. I redattori me lo restituirono immediatamente – inorriditi, direi – e mi consigliarono di non mostrarlo a nessuno finché non avessi eliminato la «propaganda antisovietica» che avevano evidenziato nel testo… “Non c’è un monumento a Babij Jar” recita il primo verso del poema che, nell’autunno del 1961, il ventinovenne Evgenij A. Evtusenko consacra al massacro degli ebrei di Kiev», (ivi, 4).

 

La poesia come unico monumento a Babij Jar

Il poeta e scrittore Evgenij Aleksandrovič Evtušenko (1932-2017) voleva scrivere dei versi sull’antisemitismo, ma fu solo dopo aver visto la voragine di Kiev «quel luogo terribile» e mosso da un sentimento di vergogna che la sua intuizione trovò una «soluzione poetica». Era stato invitato a partecipare a una serata di lettura del libro di Anatolij Kuznecov, che gli aveva parlato di Babij Jar, chiedendogli di accompagnarlo sul posto. Ecco il racconto di quell’evento:

«E nella sala immobile risuonò lento, nitido: “Non c’è un monumento a Babij Jar…”. In un silenzio di tomba le parole del poeta rimbombavano come colpi di martello: battevano nel cervello, nel cuore, nell’anima. Il gelo saliva su per la schiena, le lacrime sgorgavano da sole dagli occhi. Nel silenzio di tomba della sala si sentiva singhiozzare. A metà del poema la gente cominciò per incanto ad alzarsi e, fino alla fine, ascoltò in piedi.

E quando il poeta terminò con le parole “da tutti gli antisemiti, come fossi ebreo, e per questo io sono un vero russo”, la sala tacque ancora per qualche istante. Poi, esplose. Letteralmente, esplose. Non potrei trovare un’altra parola per descrivere ciò che accadde. Le persone saltavano, urlavano, tutti erano in preda a una sorta di estasi, di entusiasmo sfrenato. Risuonavano delle grida: «Zenja, grazie! Zenja, grazie!».

Persone che non si conoscevano piangevano, si abbracciavano e baciavano l’un l’altra. E lo facevano non solo gli ebrei: la maggioranza dei presenti, è ovvio, erano russi. Ma in quel momento nella sala non c’erano né ebrei né russi. C’erano degli uomini che ne avevano abbastanza della menzogna e dell’inimicizia, che volevano liberarsi dello stalinismo» (Cit. da Antonella Salomoni, Le Ceneri di Babij Jar. L’eccidio di Kiev, il Mulino Bologna 2019, 179).

Non c’è un monumento a Babij Jar.
Il ripido burrone è una rozza lapide.
E io ho paura.
Ho tanti anni, oggi.
Quanti ne ha lo stesso popolo ebraico.
Mi sembra, oggi, di essere ebreo.
[ … ]
A Babij Jar c’è un fruscio di erbe selvatiche.
gli alberi guardano minacciosi, come giudici.
E tutto un grido muto,
e io, a capo scoperto,
Sento che i miei capelli sbiancano pian piano.
Sono io stesso un grido muto
Sulle molte migliaia di sepolti.
Sono io ogni vecchio,
Ogni bambino fucilato qui.
E non potrò dimenticare tutto questo.
… Non scorre nel mio sangue
sangue ebraico,
Ma sono odiato di un odio ostinato
Da tutti gli antisemiti, come fossi ebreo.
E per questo io
sono un vero russo
(ivi, 180).

Un testo collettivo di memorie

Volendo rimuovere i segni fisici del genocidio durante la guerra e dopo, si modificò il territorio stesso del burrone presso Kiev, per cancellare anche questa ultima memoria, ma non si cancellò quella delle arti, perché come cenere nel vento sparpagliate carte e suoni e immagini «prosa e poesia, musica, architettura e pittura hanno dato forma a una sorta di testo collettivo».

Le testimonianze sono ora raccolte e studiate nella loro genesi storica, così come i documenti/testimonianze dell’eccidio nel volume di 337 pagine di Antonella Salomoni, insieme alla ricostruzione storica delle intricate vicissitudini del romanzo documento di Anatolij Kuznecov, ripercorrendo il percorso ad ostacoli che la memoria dell’eccidio di Kiev ha attraversato, conservandosi viva nonostante le censure e le repressioni di un regime.

La Salomoni è professore ordinario di Storia contemporanea all’Università della Calabria e incaricato di Storia della shoah e dei genocidi all’Università di Bologna e nel suo testo vengono riportate molte poesie di diversi autori, intrise e impastate con le ceneri di Babij Jar.

Fiamme nere e scarlatte vagavano
Lungo la terra sommersa d’orrore,
Avvolgendo i rioni con un bagliore malvagio
Annerivano i tetti degli abitanti di Kiev.
E la gente vide dai suoi miseri rifugi,
Oltre la corona delle cupole di Cirillo,
Oltre i pioppi dei lontani cimiteri,
Come bruciava la sua carne e il suo sangue.
Un vento sepolcrale soffiò dagli abissi,
Miasmi di roghi della morte e corpi carbonizzati,
E Kiev, l’adirata Kiev, guardava
Come nelle fiamme si dimenava il Babij Jar.
(ivi, 7)

A Kiev, nel Babij Jar, una bambina gridò:
«Ma perché mi gettate della sabbia negli occhi!».
La terra si muoveva.
La terra invocava.
Chi ha un cuore non dimenticherà quel grido.
Non dimenticherà fosse e burroni.
Quei fantasmi ci accompagneranno nella vita.
(ivi)

Perché la brezza del lungofiume a me cara
Cosparge il passante di polvere furiosa?
E i granelli, impregnati di fumo e sangue,
Mi soffocano e accecano.
Il vento ha traversato le pareti carbonizzate,
Spazzando la cenere nei vecchi luoghi d’incendio.
Fa mulinare sul Krescatik le ceneri sacre,
Polvere soffocante che scende da Babij Jar.
Se sotto il fogliame dei castagni fiorenti
In questa città avete dimenticato il dolore passato,
Lo rammenterete investiti all’improvviso
Da una desolante nube di polvere e cenere, (ivi, 8).

Resta, figlio mio, restami vicino,
Ti coprirò gli occhi con il palmo della mano,
Perché tu non veda in faccia la morte,
Ma solo il sangue sulle mie dita nel sole,
Quel sangue, che è diventato il tuo sangue,
E deve ora spargersi sulla terra …
Ero tra la folla nel cimitero,
Nudo tra le lapidi e tra i tumuli,
E ricordavo slanci elevati,
Il mondo senza dolore e senza sangue.
E mentre cadevo morto dal pendio
Nell’argilla spaventosa di corpi sanguinanti,
Credevo fermamente e senza tema
Che saresti venuto per ridarmi la vita.
(ivi, 90-91)

Burrone – con rive ritorte, un’enorme ferita lacera,
Sei deserto e selvaggio, su di te soffiano solo i venti.
Diventi nero come un abisso,
quando piomba l’oscurità,
I bagliori della città ti accerchiano come belve.
Centomila dormono in te. Il loro nome non è inciso sul granito,
Dormono ignoti nel tuo profondo, marrone come lo iodio.
I loro nomi sono dimenticati per sempre. Ma migliaia di migliaia
Non dimenticheranno mai il tuo nome di sangue …
(ivi, 147)

Sono giunto a te, Babij Jar
Se il dolore ha un’età,
Allora, sono incredibilmente vecchio,
Non si può farne il conto in secoli.
Sono qui in piedi, sulla terra, e prego:
Se riuscirò a non uscire di senno,
Ascolterò la tua voce, terra,
Parla.
Che frastuono nel tuo seno!
Non capirò nulla.
È l’acqua che risuona sotto il suolo
O le anime che giacciono nello Jar?
Interrogo gli aceri: rispondete,
Fatemi partecipe – siete testimoni.
Silenzio.
Solo il vento,
Tra le foglie.
Mi rivolgo al cielo: dimmi,
Tu, indifferente fino all’oltraggio.
C’era la vita. Ci sarà la vita.
Ma non vedo nulla sul tuo volto.
Forse, risponderanno le pietre?
No …
(Lev Ozerov, Babzj Jar, 1944-1945, ivi 336)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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