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L’Ente Delta Padano ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo dei nostri territori. A parlarcene è Denis Guerrini che del tenerne viva la memoria ne ha fatto una missione. 

Ci sono zone della memoria collettiva che vanno preservate, custodite come un bene di grande valore, come perle color avorio. Ci sono campagne del nostro paese e della nostra regione che vanno raccontate, ancora e poi ancora, consegnate ai nostri ragazzi con le loro tradizioni e le loro storie di vite di sacrificio che hanno contribuito alla costruzione della nostra realtà. Allora come ora. Tassello di un complicato e delicatissimo puzzle.

Le generazioni degli anni del dopoguerra hanno ricostruito un paese distrutto, hanno ridato la speranza e gettato semi che oggi rischiano di essere spazzati via dal vento. Un vento putrido e malsano, che, con il suo progresso che tale non è, illude che tutto vada bene.

Gli antenati, questi magnifici e umili sconosciuti. Eredi cercasi, avevamo scritto con Maupal, e oggi siamo qui anche per questo. Curiosamente pronti, siamo approdati a un angolo di un tempo che fu, insieme ad amici di tempi passati, non certo per la loro età, ma per i valori che ancora custodiscono nelle loro belle anime, aperte, disponibili, generose.

Un sabato mattina di sole, una pausa di buon auspicio in questi giorni di piove-a-catinelle, campagna rigogliosa, e orgogliosa, di Copparo. Passiamo per campi sterminati di grano, verde e ancora verde, in lontananza il maestoso e imponente viale alberato della tenuta di Zenzalino, oggi sito Unesco, che ospita anche un prestigioso allevamento di cavalli, quello di Varenne per intenderci. Filari e filari, siamo in zona quiete.

In auto, Valerio, Stefano ed io chiacchieriamo, di cinema, di arte, di fotografia, di passato. Con noi zainetti, una macchina fotografica e tanta curiosità. E ovviamente un taccuino.

Arriviamo a destinazione: la casa di Denis e Margherita Guerrini, a Brazzolo, nel Comune di Formignana. Non li conoscevo. Ma pochi minuti e mi parrà di conoscerli da sempre. E sarà per sempre, lo percepisco subito. L’empatia è una strana cosa, un’amica sfacciata che arriva improvvisamente senza neanche accorgersene o bussare e che resta senza chiedere il permesso, compagna del presente e del futuro.

Denis Guerrini

Intorno al tavolo del salotto iniziamo a parlare, tanta roba, direbbero i più giovani. Intorno a noi tantissimi oggetti curiosi, degni di un set (in effetti qui, e nella zona, sono state girate molte scene del corto in uscita, diretto da Mattia Bricalli, “Madre Terra”, che avevamo incontrato).

Denis ha una grande passione per le roulotte: le comprava, le sistemava e le vendeva alla fine degli anni 2000 quando al Lido di Spina nasceva e si sviluppava il campeggio che, un giorno, sarebbe stato frequentato da tanti turisti. Quelle roulotte che ha messo a disposizione, con grande cuore e generosità, durante i terremoti dell’Emilia nel 2012 e dell’Umbria nel 2015. Viaggi avanti e indietro, tanti chilometri, per compagni l’amore per il prossimo e qualche conoscenza che, anche grazie a Facebook, si univa nell’aiuto.

“Se allora quegli abitanti sfortunati avevano bisogno di qualcuno”, ci dice, “oggi ad avere bisogno sono la storia e la memoria dell’Ente Delta Padano, il bisogno di avere qualcuno che faccia riconoscere, o quantomeno ricordare, il peso che ha avuto negli anni Cinquanta”. L’intento dei suoi racconti, lasciati anche nel suo libro “Racconti. Il vitellino, i capponi di nonna Giuseppa e altre storie– reperibile contattando Denis sulla sua pagina Facebook – è quello di lasciare un ricordo a figli e nipoti. Ma non solo. Frammenti di vita che raccolgono sentimenti, stagioni, ricordi e speranze, un quotidiano fatto di cose semplici, umili e comuni, si legge in prefazione. Odori che portano alla mente teneri ricordi.

In Italia, a inizi del Novecento, l’attività bonificatrice dei terreni paludosi fu una forma d’intervento dello Stato imposta dalle necessità della difesa igienica. Solamente in seguito, l’opera di bonifica, oltre alla regolarizzazione degli scoli nei terreni palustri, cominciò a comprendere altre varianti. Le varie provvidenze per la bonifica integrale, armonizzanti con la politica demografica e rurale, vennero coordinate nella “legge Mussolini” del 24 dicembre 1928, n. 3134 e affidate per l’applicazione al Sottosegretariato del Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste.

Così scriveva, nel 1934, Arrigo Serpieri, Sottosegretario nel Ministero dell’Agricoltura nell’illustrare l’essenza della bonifica integrale: “… Non più solamente, come nella vecchia legislazione, opere di prosciugamento di terreni paludosi (bonifica idraulica), al fine essenzialmente igienico della difesa contro la malaria; ma ogni opera di ingegneria e di tecnica agraria e forestale, riconosciuta necessaria per instaurare una nuova economia agricola, a più densa popolazione rurale. Quindi opere di difesa igienica, formazione di nuovi centri di popolazione, costruzioni rurali, viabilità, difesa dalle acque e loro utilizzazione agricola, rimboschimento, sistemazioni agrarie del suolo, riordinamento dei fondi polverizzati o smembrati”. (…). “Bonifica integrale significa realizzare il rapporto fra l’uomo e la terra più adatto ai fini della migliore convivenza sociale; significa meglio dislocare gli uomini sulla terra, da regioni oggi congestionate ad altre spopolate, in forme sane di colonizzazioni. Ai valori economici si affiancano così i più alti valori spirituali. Si tratta non solo di una maggiore produzione, ma della sede della vita umana e dei suoi rapporti sociali; dei mezzi di comunicazione e di scambio non solo dei beni economici, ma anche spirituali”.

Zona bonificata e spianata

Se il regime fascista tentò di attuare, all’interno della battaglia del grano, una riforma detta “sbracciantizzazione”, avente come obiettivo la diminuzione del numero di braccianti giornalieri a favore di mezzadri, affittuari e coloni per sviluppare le piccole e medie proprietà terriere il cui fine ultimo era l’autosufficienza nazionale nella produzione di frumento, una prima vera e propria riforma agraria venne attuata con la Repubblica.

Nel 1951 venne, infatti, istituito l’Ente per la Colonizzazione del Delta Padano con D.P.R. 7 febbraio 1951, n. 69 “Norme per l’applicazione della legge 841/1950 ai territori dell’Emilia e del Veneto e istituzione dell’Ente per la colonizzazione del Delta Padano”. La zona aveva ancora bisogno di interventi.

Anche Florestano Vancini, nel 1951, aveva ritratto personaggi e luoghi della bassa ferrarese e del Polesine nel suo documentario “Delta Padano”, restaurato nel 1998 presso gli stabilimenti di Cinecittà con il contributo della Camera del Lavoro di Ferrara e dei comuni del delta padano.

Con la consueta maestria, Vancini, aveva osservato questa zona sia da un punto di vista paesaggistico che umano, con un occhio di riguardo alla vita dei suoi abitanti. Il film inizia con il racconto della giornata di una famiglia, che si tramuta nella storia di un intero paese che vive di inazione forzata, nell’impossibilità di sfruttare la propria terra. È la storia di 300.000 italiani ai margini delle terre più fertili del nostro paese. La vicenda si apre con l’immagine di un bimbo che rientra con la madre, dalla quale ha appena imparato a raccogliere la legna. Nella povera casa, gli altri componenti della famiglia si svegliano: non hanno fretta perché non hanno nulla da fare. Le immagini riprendono le case grigie in fondo alla valle del Po, che reca acqua, ma non alle genti del delta; bambini che muoiono di tubercolosi, analfabetismo, la scuola come stanza comune dove è difficile andare, anche per gli insegnanti. Sembra un’altra era, ma parliamo solo di settant’anni fa. Non possiamo dimenticarcene.

Florestano Vancini, Delta Padano, 1951

Ecco allora arrivare la riforma del 1951, che proponeva, tramite l’esproprio coatto, la distribuzione delle terre ai braccianti agricoli, rendendoli così piccoli imprenditori e non più sottomessi al grande latifondista. Pur riducendo la dimensione delle aziende agricole, la riforma ebbe il merito di far sorgere varie cooperative agricole che, programmando le produzioni e centralizzando la vendita dei prodotti, riuscirono a conferire all’agricoltura quel carattere imprenditoriale che era venuto meno con la divisione delle terre. Si ebbero una migliore resa delle colture e un miglior sfruttamento delle superfici utilizzate, anche attraverso la diffusione della meccanizzazione. Vennero, infatti, istituiti numerosi organismi cooperativi: cooperative di assistenza e servizi, di trasformazione dei prodotti e commercializzazione: cantine, caseifici sociali, centrali del latte, mattatoi, zuccherifici, conservifici. Ricordiamo, tra le realtà cooperative della nostra zona, lo zuccherificio gestito dalla Cooperativa Produttori Agricoli di Ostellato, costruito nel 1960 e dismesso nel 2005; lo stabilimento Colombani per la trasformazione della frutta in succhi e marmellate, fondato nel 1924 a Portomaggiore e in seguito trasferito a Pomposa; la Cantina sociale Bosco Eliceo di Volania, nel comune di Comacchio, la cooperativa Lattestense di Chiesuol del Fosso. Arrivava, finalmente, un poco di benessere.

Grazie all’attività dell’Ente Delta Padano, si conclude la distribuzione delle terre ai contadini; la consegna dei certificati di proprietà viene fatta dal ministro Fanfani

Le assegnazioni iniziali”, ci spiega Denis, “avvenivano con piccoli appezzamenti. Per le difficoltà della zona, la scarsità di lavoro e le ristrettezze economiche di allora, tuttavia, molti se ne sono andati in cerca di fortuna nelle grandi città. Milano o Torino, ad esempio, dove la Fiat prometteva un futuro diverso. In zona era invece la Berco a proporre il grande risveglio e il miracolo economico”, ci dice. Una società fondata a inizio secolo e che negli anni Cinquanta diventa società per azioni.

“Negli anni Sessanta”, continua, “saranno gli stabilimenti del Latte Ala di Copparo, ai quali era diretto gran parte del latte prodotto dalle nostre mucche, a completare un quadro di benessere minimo raggiunto da quelle campagne rigogliose. Berco e Ala si sono aiutate a vicenda. In questo contesto, era nato l’Ente Delta Padano. Terra e case per tutti.

Podere San Callisto costruito dall’Ente Delta Padano, 1953

“Le case assegnate dall’ente erano diverse”, ci spiega Denis: “due, tre o quattro/cinque stanze a seconda della composizione del nucleo familiare. Per la stalla annessa e il numero di animali si seguivano gli stessi criteri”. “Pensa” e qui sorride, “che in famiglia si scherzava ricordando alla donna che voleva magari prendere parte a una decisione di casa, che il suo peso nel punteggio per l’assegnazione era 0,75, mentre l’uomo capo famiglia valeva 1, quindi non aveva che fa starmene zitta…. Erano gli stessi criteri del tempo del fascismo”. Ma l’idea di quel villaggio non era di Mussolini. Il nonno Ettore, dal nome di grande condottiero ma per tutti Secondo, glielo ricordava sempre.

“Mio nonno, la mia guida e continua fonte di ispirazione”, mi dice con orgoglio, “era alto, biondo e con gli occhi azzurri, probabilmente grazie all’insediamento degli Arimanni di Massafiscaglia. Aveva fatto il granatiere. Non era colto, ma mi diceva sempre che quell’idea non era stata del Duce, ma di un altro signore francese, un tale Le Corbusier”.

E il nonno aveva ragione. Le ricerche, infatti, portano subito alla “fattoria radiosa”, agli studi su “La Ferme radieuse et le Centre coopératif” che l’architetto svizzero, naturalizzato francese, aveva elaborato per il terzo Congresso Internazionale di Architettura Moderna (CIAM) del 1930 e riuniti nel 1940.

La pubblicazione italiana di questi studi è avvenuta solo nel 2015, grazie alla casa editrice Armillaria, “La Fattoria Radiosa e il Villaggio Cooperativo”, a cura di Sante Simone.

Si può dire che la Fattoria Radiosa è la sorella minore della più celebre Città Radiosa, probabilmente la precondizione realizzativa. Se infatti la Ville Radieuse rappresentava la città moderna, con la sua geometrizzazione funzionale di grattacieli e gli ampi spazi verdi, essa tuttavia non era autosufficiente: non nasceva per vivere in un mondo solitario, ma per essere parte di un più ampio organismo in cui erano centrali i luoghi della produzione, e in particolare quelli del cibo e dei beni primari, ovvero quelle campagne che i giovani, invece di coltivare, sempre più abbandonavano. Essere felici in campagna, e tornarci, sarebbe stato allettante per i giovani solo se essa fosse divenuta efficiente, ordinata e pulita.

L’ispirazione programmatica era il “programma di ricostruzione agraria” che Norbert Bézard, osservatore del mondo contadino, aveva proposto a quello stesso CIAM del 1930: un programma teso a trasformare le fattorie in moderni “strumenti di civiltà”. Bézard fondava su basi corporativiste e antistataliste un nuovo ordine sociale che aboliva la proprietà terriera, unendo gli sforzi dei singoli in un sistema cooperativo il cui simbolo era il silo comune. E questi principi si traducevano nelle idee di Le Corbusier che disegnava villaggi e fattorie distribuiti razionalmente sul territorio e collegati da un sistema di moderne autostrade. Ogni unità era compiuta nelle sue parti, e integrava il silo, la cooperativa, la scuola, la piscina, un ufficio postale, le abitazioni con servizi e spazi comuni, l’orto e il club: tutti costruiti sfruttando i sistemi di produzione standardizzata. Pur centro moderno, restava, tuttavia, il modello di piccola comunità tradizionale, legata a valori antichi, alla solidarietà perduta dopo la rivoluzione industriale, al valore dato ai piccoli piaceri della vita, al mettere radici per la propria “stirpe”. Se cioè la visione architettonica proposta era figlia del mondo macchinista, la vita ch’essa ospitava restava, in qualche modo, intrisa di quel romanticismo che tanto era avversato, dove la natura era espressione di poesia e i figli naturali prosecutori del lavoro dei padri. Una forma dell’abitare legata all’organizzazione della società. Un futuro visto con gli occhi del presente.

Il modello di Le Corbusier è stato molto analizzato e criticato. A noi qui basti ricordare, per coerenza storica, che in fondo, un po’ il fascismo c’entra. Contraddicendo, con il dovuto rispetto, un pochino Secondo. Se non altro per le vicinanze e i reciproci apprezzamenti tra Le Corbusier e una serie di personaggi vicini al partito francese di ispirazione mussoliniana, da Pierre Winter, a Philippe Lamour, a Hubert Lagardelle. Legami che si concretizzano anche nelle pubblicazioni di Bézard e Le Corbusier sulle riviste “Plans” e “Prélude”. Volendo però vedere nella sua ammirazione per le grandi bonifiche italiane l’apprezzamento di una grande opera di ingegneria più che del regime che l’ha resa possibile; allo stesso modo, in quelle riviste dove i piani per la Fattoria Radiosa vengono accolti con entusiasmo, potremmo vedere solo il plauso politico di un progetto che valorizzava l’opportunità per gli individui di contribuire alla grandezza e alla concordia nazionale. Come in un alveare operoso, le persone saranno libere di fare, essere e avere tutto ciò che servirà a un bene superiore, quello della comunità e poi dello Stato. Ne prenderemo gli aspetti positivi, avulsi da ogni ideologia.

Lavori di bonifica

Torniamo a noi, dunque. Denis continua il racconto: “mio nonno mi raccontava sempre di come un bel giorno il cavalier Bovolenta, funzionario del nascituro Ente Delta Padano, era venuto a cercarlo per proporgli un’assegnazione”. “Lei, signor Guerrini, potrebbe essere interessato, dato che ha una famiglia numerosa?”, si legge nel libro. “Si tratta di un sito di 7,30 ettari costituito da una casa con quattro stanze da letto e una stalla adiacente per otto mucche, contando anche fienile, pollaio e porcile. Tutto è ancora da costruire, ma è compresa anche l’acqua corrente, sia in cucina che in bagno, e pure l’impianto della luce, che sarà a suo tempo disponibile. La cucina ha un impianto che permette di scaldare l’acqua per ogni uso”. E il nonno decise.

Appoderamenti nel basso ferrarese, 1954

“Molti assegnatari chiederanno il riscatto delle proprietà già dopo i primi dieci anni, anziché dopo i trenta originari, e che con le somme incassate l’Ente Delta ha provveduto ad asfaltare le strade che da vicinali sono così diventate comunali (anche se formalmente ancora oggi restano alcune criticità su questo). Si è poi creato un grande pasticcio. La coesistenza di due sistemi paralleli, la proprietà privata e quella collettiva per la gestione del riso come quella di Jolanda di Savoia, ha creato contrasti e disparità. L’ente sarebbe stato disciolto. Ma noi siamo qui”, conclude.

Nel libro che raccoglie i suoi racconti, ci perdiamo fra gli allagamenti delle campagne, i capponi della nonna, le abbuffate, le mietiture, la pariglia e gli stivali, i cappotti e le sciarpe indossati per far fronte al freddo gelido di febbraio durante il tragitto fangoso che portava la famiglia al bar dove si poteva vedere, tutti insieme, il festival di Sanremo.

Con Denis, ci avventuriamo per le stradine illuminate da un sole che da tiepido diventa presto cocente. Ecco la via Zaffo (dal nome del tappo delle damigiane).

Inizialmente non c’era un criterio per denominare quelle nuove vie per cui molte presero il nome dell’ingegnere che aveva dato via al progetto, Bruno Rossi. Poi il nonno di Denis propose di chiamare le vie con il loro nome originario del podere. Così il podere Zaffo dava il nome alla via mentre il podere Mulinetto dava il nome ad un’altra trasversale. Ad ogni nuovo podere venne assegnato un numero e un nome: così nasceva, ad esempio, il podere n.71, S. Ettore, scritta color marrone. Sotto ad ogni finestra, al piano superiore, lo spazio per un portabandiera per le feste solenni.

Fra campi, trattori e stalle, arriviamo alla casetta, oggi disabitata, del custode della chiusa. Un sistema idraulico che rende orgogliosa la nostra regione, da sempre. Un canale artificiale che serviva sia allo scolo che all’irrigazione, composto anche di una diga che poteva fungere da chiusa per lasciar passare i barconi che trasportavano le barbabietole dirette allo zuccherificio di Codigoro (trasporti presso effettuati su gomma). Lì fianco, da ragazzini, si faceva anche il bagno.

Ma è ora di pranzo. Ci attendono piadina, focaccia, salame e lasagne. E il calore della spontaneità e dell’amicizia. Oggi sono felice.

Archivio fotografico dell’Ente Delta Padano
La Fototeca dell’Istituto Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna conserva, tra le altre raccolte, l’archivio fotografico dell’Ente regionale di Sviluppo Agricolo, istituito con il nome di Ente per la Colonizzazione del Delta Padano nel 1951, ente statale dipendente dal Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, divenuto ente regionale nel 1977 e infine soppresso nel 1993 con trasmissione di funzioni residue, personale e patrimonio all’Assessorato regionale Agricoltura. L’archivio fotografico, ordinato, catalogato e digitalizzato dall’Istituto Beni Culturali, consiste in oltre 32.000 positivi in bianco e nero e a colori, circa 20.000 negativi, quasi 4.000 diapositive, pellicole cinematografiche e audionastri.

Immagini storiche dell’archivio fotografico dell’Ente Delta Padano

Fotografie di oggi di Valerio Pazzi

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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