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2. SEGUE – “Giornalisti si nasce e io lo nacqui”, diceva, parafrasando Totò, un altro collega e amico, anch’egli romagnolo della banda Fellini, con il quale aveva diviso nei tempi poveri romani l’appartamento. Enzo Lucchi collaborava allora con “Paese sera”, era uno dei più acuti, coraggiosi e curiosi cronisti con cui io abbia lavorato, ma la direzione del “Giorno” di Milano, dove alla fine aveva trovato stipendio sicuro, non lo amava, è matto, dicevano di lui al secondo piano, il centro del potere del quotidiano e così gli affidavano servizi di bassa cronaca, sicuri, comunque, del risultato del suo lavoro: vestiva di nero, pantaloni neri, giacca di pelle nera, e arrivava su una moto nera di grossa cilindrata, una Bmw, Tonino Guerra e Federico il Grande si erano ispirati a lui per l’impareggiabile personaggio di “Scureza”, quello che attraversa la scena in moto in mezzo alla neve nel film “Amarcord”. I romagnoli sono dei pataca intelligenti ma strambi, così non mi meravigliai quando Lucchi mi disse vado in pensione, ho comprato una roulotte e vado a fare l’archeologo, lasciò la famiglia e partì, mi scrisse pochi mesi prima di morire ancor giovane, era sempre in Puglia, al caldo scrisse, lui che, quando lo mandarono con me a Vienna, dove i terroristi avevano sequestrato venti ministri dell’Ocse, riuniti per spartirsi il mercato mondiale del petrolio e deciderne il prezzo per noi poveri consumatori, si era presentato con addosso un pelliccione bianco candido con cappuccio che gli eschimesi gli avevano regalato una volta che era andato al Nord su una nave rompighiacci: io risi, ma dove vai così conciato?, gli chiesi, e lui, serio serio: non si sa mai, rispose, sperando in una grande avventura. Era inverno, d’accordo, ma non andavamo al Polo: Lucchi , che aveva il viso esquimese, era fatto così, gli piaceva esagerare.

Anch’io giornalista “lo nacqui”, ne ero convinto fin da ragazzino, quindi entrai sparato nella gloriosa carriera dello scribacchino, pensando che l’immortalità fosse lì ad attendermi, mi immaginavo la celebrità bellissima, eterea, pura, l’amante della mia vita futura: gloria, successo, fama, lasciando al mondo capolavori di scrittura originale, di inchieste inarrivabili, coraggiose, inoppugnabili, tutte rivolte contro l’ingiustizia e la falsità, credevo, allora, che esistesse una verità nelle cose e nei fatti, non avevo ancora imparato che la verità è sempre soggettiva, relativa, legata ai tempi e, anche, ai personaggi e agli interessi diversi che in essa si muovono. Mi accorsi più tardi che il mio era un madornale errore iniziale di valutazione della vischiosa, ingarbugliata trama umana, tu credi nella Madonna, mi diceva un mio caro amico, rimproverandomi di non essere realista. Credevo che bastasse essere onesti, meritevoli, che fosse sufficiente lavorare e saper scrivere per arrivare lassù, nell’Olimpo dei Grandi. Niente di più errato.

Grande errore cominciare questo strano mestiere di servitore galante, con la laurea di Sissignore, pensando a Emile Zola o a Hemingway, miti di un giornalismo che non ha patria in Italia, Paese in cui si pensa che la cultura e la ricerca della verità appartengano a emisferi non umani. Realismo ci vuole, non sogni. Come mi disse un giorno dell’inizio del 1970 Enzo Biagi, appena nominato direttore del “Resto del Carlino”: mi aveva chiesto di formare, assieme a Gian Franco Venè e a Maurizio Chierici , una specie di task-force milanese, ogni giorno un pezzo, un’inchiesta, un commento. Gli risposi che, dovendo fare il vice capocronista al “Giorno” e dovendo seguire le indagini sulla strage di piazza Fontana, non avevo la possibilità di rispondere alla sua chiamata. E Biagi, stizzito: “Ma ho chiesto il permesso di collaborare con me al suo direttore Pietra, il quale mi ha detto che va bene, lei può lavorare anche per me, ho già un accordo con lui”. “Sono abituato a fare le cose seriamente – replicai duro come spesso fanno i giovani e molto seccato per l’impertinenza (o mancanza di educazione) di aver parlato prima col mio direttore e poi con me, sicuro della mia risposta – non me la sento di fare due cose importanti nello stesso giorno, sarei disonesto con lei se dicessi di si.” “Lei sbaglia – sentenziò – io non ho mai detto di no a nessuno”. Una lezione.

Ecco, nel mestiere di giornalista, per fare carriera, non bisogna mai dire no. Sissignore è l’unica parola che il buon giornalista deve imparare e saper pronunciare: sissignore, agli ordini, si buana, signorsì al padrone di destra, signorsì al padrone di sinistra, la logica del potere non deve essere indagata, è un affare delle alte sfere, scrivi e basta. Una volta, al “Corriere Lombardo”, il primo quotidiano uscito a Milano subito dopo la Liberazione, arrivò la notizia, terribile, che un ponte nella Bergamasca era crollato mentre passava un pullman carico di scolaretti in gita, non ricordo quanti morti ci furono: mandammo come inviato un giovane e bravo cronista, Fernando Mezzetti, il quale scrisse che “il ponte di cemento armato aveva ceduto sotto il peso della corriera”. Il giornale era uno dei due (l’altro era “La Notte”) posseduti nel capoluogo lombardo da Pesenti, il re del cemento. Mentre passava il pezzo, il mio co-capocronista Bruno Castellino scosse il capo, “Mezzetti – chiamò – quanto giornalisti ci sono qua dentro?” e Mezzetti “Circa quaranta”, Castellino: “e quanti impiegati? e quanti correttori di bozze? e quanti tipografi? e quanti spedizionieri?”, Mezzetti guardava il suo capo con aria confusa, interdetta. Castellino riprese: e ti pare che se il cemento può sostenere il peso di tutta questa gente non possa sopportare una corrierina con dei bambini? Mezzetti: ma il ponte era di cemento! Castellino: e chi lo dice? Tu? E poi cancellò la parola cemento, quel ponte non aveva mai visto il cemento del padrone.

La censura comincia e spesso finisce così nel giornalismo, non c’è nemmeno bisogno dell’intervento diretto del potere, gli intermediari sono fidati Signorsì, per questo sono scelti scrupolosamente tra le tante teste che credono di essere segnate da un destino di gloria e, invece, sono semplicemente teste di cavolo, pronte a vendere la propria pelle (e, soprattutto, la propria testa) per dei soldi, avere un padrone è fastidioso ma anche rassicurante, basta fare lunghi esercizi di lingua. Se la sai usare bene la carriera è fatta. I meriti, nel giornalismo, sono mezzi spesso secondari, non dico inutili, ma non di primaria importanza per fare la sospirata carriera, come in tutti i settori del resto. Almeno un tempo era necessario saper scrivere correttamente, sapere di lettera come si diceva, oggi l’avvento del computer ha fatto giustizia di questo orribile orpello del saper scrivere. Sul desk arriva già tutto fatto, così viene tolta automaticamente anche la curiosità di approfondire, l’ultima speranza della tua intelligenza è stata cancellata, annullata dallo spietato strumento, che si è sostituito alla tua mente, tu devi usare le dita, spingere leggermente sui maledetti tasti e la realtà virtuale ti compare davanti in tutta la sua complessa parzialità, chini la testa e non fai nulla per cercare di sapere se quello che ti racconta il computer è vero o falso, la realtà vive dentro il computer ed è l’unica possibile umana verità.

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Gian Pietro Testa

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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