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IL GRATTACIELO – Era un mattino di molti anni fa, Roberto Soffritti pensava di dover edificare la nuova Ferrara, una Ferrara orgogliosa con le sue mura restaurate, nuova viabilità, comode strade d’accesso al centro cittadino e poi con la cultura, proseguendo la politica delle grandi mostre inaugurata da Franco Farina e, infine, con l’apporto di un personaggio qual era il maestro Abbado; e poi, ancora, un nuovo ospedale e via sognando. Sappiamo com’è finita: palazzo degli specchi, una speculazione come l’ospedale di Cona, dove il cittadino non riesce ad arrivare se è vecchio, ammalato (come dev’essere chi va all’ospedale) e ha bisogno di un intervento urgente. Sarebbe bastato mantenere un buon pronto soccorso, ma la grandeur da cui i ferraresi a volte vengono presi ha chiuso la porta al buonsenso. Non erano sprechi sufficienti, la licenza per innalzare l’inutile cittadella dei dieci cinema è la dimostrazione di politiche diciamo dissennate e la nuova Ferrara rimase al palo. Nemmeno il grande porto che doveva prendere il posto della Darsena ebbe la possibilità di essere varato. Ma torniamo a quel mattino primaverile: ero nell’ufficiio del sindaco con il famoso architetto Bruno Zevi e, da una delle finestre della sala, guardavamo lo stupendo scenario su cui eravamo affacciati: architetto – gli chiesi – ricorda quel suo articolo pubblicato sull’ Espresso, con il quale denunciava l’irresponsabile scempio di una delle più belle piazze d’Italia, sconciato dal palazzo di Piacentini appena inaugurato? Ricordo, rispose Zevi, ma di scempi ormai… E che dice del grattacielo? Ma, sentenziò, ora che l’hanno ridipinto, insomma… e tacque rassegnato, come a dire c’è di peggio, anche se allora la scritta pubblicitaria al neon di un apertivo che ricopriva quasi tutta l’altezza di una delle due torri, aveva sostituito e avvilito il placido calar del sole su Porta Po, come avevano voluto Pellegrino Prisciani e Biagio Rossetti. Con il grattacielo, la sera su Ferrara ora arriva più presto. Insomma, c’è più buio.

LA POESIA E’ MORTA – Hanno un bel da dire e abbiamo un bel coraggio a bandire premi letterari e a festeggiare vincitori di nulla: la poesia è morta, i mille e mille poeti sono stati sepolti sotto una valanga di insulsaggini, l’unica voce che si ode è quella del kalashnikov e le urla disperate delle vittime e dei loro familiari: il grido che giunge da Parigi è lacerante, è colpita la nostra società, la nostra amata cultura, ma nessuno si dispera per i migranti che annegano ai nostri piedi o per i duemila morti ammazzati dagli integralisti in Nigeria, quelli non contano, sono neri, con la loro pelle si possono far scarpe griffate, no, nessuno più canta il dolore, dicono che non è poesia, lo diceva anche un amico, molto noto, durante la discussione finale di un premio per giovanisimi poeti, “no questa lirica no, sentenziò, non ha un messaggio”. Non ho mai capito perchè la poesia dovrebbe lanciare messaggi: cantami o diva l’ira funesta del Pelide Achille che infiniti addusse lutti agli Achei, è l’unico messaggio possibile per uscire dall’orrore, essere consapevoli di che cosa siamo, di che cosa abbiamo fatto nel nostro sovente lurido passato e, forse, per liberarci dal furioso, disumano liberismo spesso assassino da cui il nostro animo poetico è stato sconciato. Non c’entra con il terrore di Parigi? C’entra, eccome se c’entra. Basta pensare un poco, abbiamo cancellato ogni valore, abbiamo deciso che il più forte vince sempre, non sappiamo inventare altro che storie popolate da mostri umani coperti d’oro e abbiamo esportato questo trionfante pensiero nazifascista in tutto il mondo: ci aspettiamo forse che dal raccapriccio nasca la solidarietà?

IL FUNERALE – Quando ancora giravo il mondo a raccattar notizie, mi venne in mente di andare a intervistare un poeta scrittore, tra i maggiori della prima metà del Novecento, Marino Moretti: tranquili, è già stato dimenticato. Moretti, ormai un vegliardo senza speranze, abitava a Cesenatico, sulla strada che dal porto-canale conduce al cimitero. Dal giardinetto, dove Marino mi aspettava, si vedevano le vele gialle e rosse delle barche, tenute lì a galleggiare in quell’impareggiabile museo marinaro. Parlavamo del più e del meno, io gli chiedevo notizie di quel mondo che aveva cantato e che mi aveva incantato, parlavamo delle donne romagnole pie e coraggiose, quelle che pregavano “buzarè, buzarè l’anma de pchè” quando sentivano i loro uomini sanguigni e brilli passare davanti a casa bestemmiando, parlavamo di letteratura, poi ci fermammo improvvisamente: fuori, per strada stava passando un funerale accompagnato dalla banda: “vede – mi disse Moretti – la gente è completamente pazza, suona e canta quando uno muore, un funerale…” e tacque. Ora di funerali ne fanno due, così il morto diventa più importante agli occhi della società e si canta, si applaude, un carnevale: chissà che cosa direbbe oggi Moretti?

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Gian Pietro Testa


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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