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Le cose belle nascono sempre dall’intelligenza e dal buon senso delle persone. E c’è un tempo per ogni cosa.
Ero andata all’inaugurazione della mostra senza sapere nulla di lei, un po’ all’ultimo momento, senza documentarmi. Ascoltandola parlare del “Programma di eutanasia delle persone disabili” messo in atto dai nazisti durante la seconda guerra mondiale [leggi l’articolo], mi ero fatta l’idea che fosse una studiosa, una specialista, una storica. Ho seguito l’incontro con attenzione, ho preso appunti, registrato gli interventi e, come una bambina con gli occhioni spalancati, mi sono fatta guidare per tutta la mostra da quella signora esperta e appassionata ma allo stesso tempo dolce e coinvolgente. Solo alla fine del percorso, mi sono avvicinata mentre lei, Virginia Reggi, stava facendo due chiacchiere informali e l’ho sentita dire una frase che mi ha colpito: “La cosa più bella è che io non ho mai voluto né leggere libri né vedere film sulla Shoah perché non ci riuscivo, era troppo angosciante per me… non avevo mai letto nemmeno Primo Levi!”. Ops! E mentre leggevo sul volto di alcuni dei presenti un misto di smarrimento e incredulità, le ho domandato:

E come nasce questo progetto?
Lei mi guarda e, con il suo simpatico accento di Lugo, comincia a raccontare: “E’ una storia stranissima. E’ stato nel 2004. Io a quei tempi scrivevo degli articoli per il Notiziario regionale dell’Anffas. Era un bimensile e ogni volta bisognava tirar fuori un argomento interessante di cui parlare. Quella volta doveva uscire il numero di gennaio, c’era la Giornata della memoria e pensai “se ci si potesse legare a quei temi”, io sapevo che erano morti anche dei malati mentali ma pensavo nei campi di sterminio, come han sempre pensato tutti. Allora cercando su internet, mio marito scoprì che c’era un giornalista della Rai che aveva fatto una ricerca sull’uccisione dei disabili. Vidi il programma e mi piacque perché non si addentrava in quelle cose macabre che mi avevano sempre angosciato e che ti fan star male. Del programma Aktion T4 mi colpì in particolare l’organizzazione, come fosse tutto pensato nei minimi dettagli. Scrissi l’articolo, lo pubblicai in due volte. Poi non ci pensai più. Ma nel 2009, cinque anni dopo, mi arrivò una telefonata dall’Arci di un paesino in Toscana in cui mi dicevano che avevano letto i miei articoli su internet e che mi invitavano a parlarne nelle scuole superiori, in occasione della Giornata della memoria. Mi misi a rileggere i miei articoli e andai. Sentii un tale interesse da parte dei ragazzi, che ho cominciato sul serio a leggere e ad approfondire. Ho letto il libro di Alice Ricciardi Von Platen Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente, il libricino era piccolo e mi son detta, ma sì dai, si può fare! E’ un libro meraviglioso, da lì sono partita e non mi sono più fermata. Ho letto finalmente tutto Primo Levi, poi mi sono andata a studiare l’eugenetica, il darwinismo sociale, la biopolitica e così via. Dopo è venuto lo spettacolo di Paolini che ha rotto gli argini.”

E la mostra, come si inserisce?
“E’ successo così: l’associazione che gestiva il giornale non stava più in piedi, eravamo rimasti in due, io e un signore di Parma. Io nel frattempo ero diventata nonna di una serie di nipotini, e non riuscivo a seguire come prima. Quindi abbiamo chiuso. Però c’era rimasta in cassa una bella quota, 40.000 euro. E ho pensato, invece di distribuirli a pioggia a tutte e 14 le associazioni dell’Anffas della regione, se facessimo una bella iniziativa culturale, valida non solo per l’Anffas dell’Emilia-Romagna ma anche per le altre, valida per le scuole; qualcosa di diverso, anche perché di solito le nostre iniziative sono per andare a chiedere, per una volta, ho pensato, facciamo che siamo noi ad offrire qualcosa! Il comitato ha approvato, abbiamo deciso di investire in questo progetto e di realizzare la mostra. Poi i testi me li sono scritti tutti io, come anche il libretto.”

Fatti benissimo tra l’altro, sia il libretto che i pannelli. Ma lei ha una formazione storica?
“No, assolutamente no. Io di formazione sono maestra elementare, non ho nemmeno finito l’università perché sono entrata di ruolo, mi sono sposata e dovevo aiutare mio fratello che aveva avuto una figlia disabile.”

E così, oltre ad aver visitato una mostra interessante e ben curata, ho ascoltato la storia ordinaria di una donna straordinaria. Come me, come noi, come tante.

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Sara Cambioli

È tecnico d’editoria. Laureata in Storia contemporanea all’Università di Bologna, dal 2002 al 2010 ha lavorato presso i Servizi educativi del Comune di Ferrara come documentalista e supporto editoriale, ha ideato e implementato siti di varia natura, redige manuali tecnici.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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