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5. SEGUE – Era una mattina calda di fine estate, 20 settembre, ma la Breccia di Porta Pia non c’entra, non era la celebrazione dei cent’anni da quell’episodio che si pensava, sbagliando, dovesse rappresentare la quadratura del cerchio Italia, per me comunque non era un giorno qualsiasi. Partivo, andavo a lavorare a Milano, avviai la Cinquecento verde pallido, il motore borbottò tranquillo, ingranai la marcia e partii, ma prima diedi un ultimo sguardo nello specchietto retrovisore e vidi mio padre che mi salutava con una mano e con l’altra si asciugava un occhio. Mia madre aveva pianto in casa silenziosamente, immaginai che un tempo ormai lontano, quando i figli venivano consegnati al re per andare a fare qualche guerra e forse non tornare mai più, la scena fosse la stessa. Io, invece, mi sentii libero, lasciavo finalmente la profonda provincia supponente e spesso cattiva, borghese, che non faceva crescere il cervello dei giovani. Ma qualcosa a me aveva pur insegnato, pensavo guidando, lasciavo indimenticabili amici e altrettanto importanti maestri: come potevo dimenticare il proto della vecchia tipografia di Balbo Baruffi, detto Baruffa, era con lui che alle quattro del mattino chiudevo le ultime pagine della “Gazzetta”.
Mi avevano assunto all’Agenzia Giornalistica Italia e mi avrebbero iscritto all’albo dei giornalisti professionisti. Confesso, ero felice. Milano. Milano era il massimo per uno che voleva fare questo mestiere così importante, giornalista, e mi ci vollero anni per capire che era anche stupido, questo mestiere. Nella capitale morale dell’Italia, così si diceva allora, c’era la concentrazione dei più grandi giornali, Corriere della Sera, Il Giorno, Il Sole e 24 Ore – non ancora uniti – il Corriere d’informazione, il Corriere Lombardo, La Notte, L’Unità, L’Avvenire e, ultimo appena nato, Stasera, quotidiano del pomeriggio voluto dal Pci di Cossutta e da Enrico Mattei, alla cui guida era stato chiamato un personaggio di statura superiore, quel Mario Melloni che aveva raggiunto la fama con lo pseudonimo di Fortebraccio, polemista che in tre parole poteva mettere fine alla dignità di un politico, come quando scrisse del segretario socialdemocratico “è uno con la fronte inutilmente ampia”.

L’aria che si respirava sotto la Madonnina era effettivamente diversa, la gente andava di fretta, ma se ti dava un appuntamento non sgarrava di un minuto e si sapeva che a lavorare bene c’era un tornaconto, a Milano tutto doveva avere un tornaconto, i danée sono i danée, un antico motto popolare dice che chi “volta el cul a Milan volta el cul al pan”: pane intellettuale anche, non parlo soltanto della mitica e stracciadenti michetta. Me ne accorsi poco dopo il mio festoso approdo sui Navigli. Fui mandato a prendere notizie su un omicidio avvenuto in una delle case di ringhiera del centro, vecchie case fatiscenti, cesso alla turca sui pianerottoli, uno per piano, non si deve mai esagerare, ora al posto di quel vecchiume puzzolente sono stati ricavati deliziosi appartamentini per artisti e studenti con i soldi di papà in tasca. La vittima era, tanto per cambiare, una donna di mezza età, il cui uomo era scomparso. Ricordo il commissario del Monforte dottor Grappone, poi questore, il quale sapeva alla perfezione come costruirsi una fama, innanzitutto farsi amici i giornalisti; quindi le sue notizie non erano mai parziali, ma abbondanti e il ‘colore’ non mancava mai, alla sua figura pare che si sia ispirato Gian Maria Volonté per il film “Cittadino al di sopra di ogni sospetto”. Dunque il commissario Grappone parlava dell’omicidio, infiorando il racconto con aggiunte sempre azzeccate. E io prendevo nota sul mio taccuino. A un certo punto sentii una mano che mi batteva sulla spalla destra. Mi voltai, era un collega per me vecchio (avrà avuto cinquant’anni), non alto, capelli cortissimi, brizzolati. Mi disse “scusa, sono arrivato in ritardo, mi puoi riassumere? sono del Corriere”, aprii il taccuino e gli lessi i miei appunti, intanto pensavo “però, diventare vecchio ed essere ancora qui a chiedere notizie a un ragazzo, spero di fare qualcosa di più nella vita”. Così aspettai il giorno dopo per conoscere il nome del “vecchio”. Il pezzo, sulla cronaca del Corrierone aveva un titolo di taglio di cinque o sei colonne. Lessi l’articolo, lo giudicai da enciclopedia, c’era il patos, la pietà per queste vittime della miseria e della mancanza di cultura e non c’era alcun giudizio, cronaca, pura cronaca. La firma era Dino Buzzati.

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Gian Pietro Testa


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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