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Infuria su Facebook la polemica suscitata dallo scontro tra il sindaco di Napoli de Magistris e lo scrittore Roberto Saviano. Fiorenzo Baratelli riflettendo sullo sciagurato commento del sindaco di Napoli scrive:
“Quando il confronto supera un certo limite, anzichè essere feconda dialettica democratica, diventa segnale di pericolo…Il limite è stato superato dal sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, nella polemica con lo scrittore Roberto Saviano. Il sindaco ha detto la cosa più odiosa e pericolosa per la salute dell’informazione e per la vita di Saviano: “Aspetti la ‘sparatina’ o l’ammazzatina per far crescere il tuo conto in banca!”. Sulla pelle di Napoli si arricchisce la camorra, il sottobosco intoccabile degli amministratori, politici e imprenditori che trafficano in tangenti e appalti, i ‘magnaccia’ della prostituzione, gli spacciatori, i riciclatori…Il sindaco di Napoli non gradisce più che si parli dei mali della sua città perchè adesso c’è lui? Prima Saviano poteva farlo, ma adesso non più? Lo sappiamo che ogni tipo di potere è allergico alla libera informazione…Ma dobbiamo anche sapere che chi viene sottoposto ad attacchi brutali come questo deve sentire attorno a sè la solidarietà e la vicinanza di quella parte dell’opinione pubblica che considera il bene della libertà di informazione prezioso come l’aria che si respira”.
La – per me – più che condivisibile opinione di Baratelli trova una dura replica e un coro di accuse da coloro che rinfacciano a Saviano l’opportunismo di arricchirsi sui mali di Napoli. Alla disgustosa polemica reagisce una lettrice: “Credo che, soprattutto oggi, ugualmente, siano compito degli intellettuali non omologati, l’approfondimento, il rifiuto della generalizzazione urlata, dell’utile qualunquismo anche se colto…. È il momento di assunzione di responsabilità da parte di tutti, di costruzione di fronti delle forze sane in grado di riconoscersi… Chi non lo fa è colpevole a prescindere dal ruolo che ricopre”.

Questa miserrima polemica dunque si potrebbe riassumere solo in quell’orrida accusa di accrescere il conto in banca dello scrittore? E che se ne fa Saviano di un grosso conto in banca che sicuramente avrà e che comunque non gli permette di godere del primo dei diritti umani: la libertà? Ma come si fa a offendersi se viene misconosciuto – almeno dai fedeli sostenitori di de Magistris – l’aspetto positivo della reazione di Napoli al degrado? Chi è che per primo ha rivelato a livello mondiale le condizioni di Napoli? “Gomorra” è stato scritto solo per rendere famoso il suo autore o piuttosto per denunciare lo stato mafioso di una città che viveva e ancora vive di quelle pratiche?
E un sindaco per quanto onesto e responsabile, ma dalla lingua facile e dal commento vituperoso (sì proprio come la canizie di quel vecchio che nei “Promessi sposi” incitava all’assalto del forno delle grucce), può permettersi simili affermazioni?
Anche io posso commentare non sempre benevolmente l’agire di Saviano, come per esempio il suo silenzio alla proposta della giuria del Premio Bassani, poi concretizzata, di premiarlo per la sua difesa dell’ambiente e del paesaggio; ma tra definire questo un gesto di maleducazione e infamarlo pensando ad un suo ‘conto in banca’ la differenza è somma.

Come osserva Baratelli, la sciagurata ignoranza della lingue e del significato delle parole permette questa mortificante incomprensione del valore di ciò che si dice, che è la prima tra le funzioni della lingua. Un lettore ferrarese riporta un illuminante giudizio del grande psicanalista Gustav Jung: “Pensare è molto difficile. Per questo la maggior parte della gente giudica. “La riflessione richiede tempo, perciò chi riflette già per questo non ha modo di esprimere continuamente giudizi” Jung”
Ed è proprio a proposito del ruolo della cultura come perdita di contatto con la realtà che questa premessa serve.
Leggo con interesse il servizio apparso sul “Venerdì di Repubblica” sui quarant’anni della costruzione del Centre Pompidou detto Beauburg e sulle dichiarazioni del suo autore Renzo Piano. Questo rivoluzionario progetto ha cambiato per sempre l’idea di museo e ne ha creata una nuova, nata dal Sessantotto come offerta, ‘fabbrica’ per svecchiare quella cultura di cui fino al secondo dopoguerra Parigi deteneva il primato poi trasferitosi a New York. Ora quel linguaggio è ormai divenuto accademico, ha perso la sua carica eversiva, ma ha di nuovo riportato l’interesse mondiale su Parigi. I parigini del quartiere su cui sorge il Beauburg scrissero a suo tempo una protesta firmata da trentamila persone contestando la costruzione e il senso dell’opera. Dunque un artista, sia scrittore sia architetto o pittore o urbanista, viene sempre contestato come è contestato ora il giudizio di Saviano sulla città di Napoli. Ma per fortuna l’innovazione spesso, ma non sempre, si affida al pensar grande o al pensar diverso.

Ferrara ha avuto molte occasioni per sperimentare la diversità, ma sembra che lo spirito conservatore prevalga. Si pensi alla trasformazione del Castello nella sistemazione voluta da Gae Aulenti di cui non si discute la qualità, ma il principio. E’ caduta nel vuoto. Che cosa hanno lasciato le testimonianze di opere fondamentali volute a Ferrara e per Ferrara: Ronconi – e non solo quello canonico dell’”Orlando Furioso” ma quello dell’”Amor nello specchio” – Abbado e il suo “Viaggio a Reims”; l’esperienza del Living Theater o di Carmelo Bene, il Visconti di “Ossessione” e perfino le primissime mostre a Palazzo dei Diamanti, dove si esponeva Vedova o Manzoni? Tanto per citare alcuni casi tra i maggiori. Sembra che la nebbia reale si trasformi in nebbia del ricordo. Così la sperimentazione parla più alla pancia dei turisti che alla reale esigenza di una cultura innovativa. S’incendia il Castello e nello stesso tempo si pensa di trasferire la Pinacoteca in quel luogo distruggendo in un certo senso il patrimonio storico di una sistemazione che era stata il risultato di un pensiero storico egregio. Si crea un Museo del Duomo le cui opere sono illeggibili nella sistemazione attuale.
Certamente mi si potrà rimproverare la mia severità, che in realtà tradisce l’amore mai sopito per questa città così spesso ingrata con i suoi cittadini, ma non è la malevolenza che mi spinge alla denuncia di ciò che ritengo una possibilità, l’unica che posso esercitare perché sia stimolo che la città delle cento meraviglie ci possa ancora stupire.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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