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Si dice che il tempo produca la rimozione del passato prossimo e il recupero di quello iniziale, quando appunto funziona la tecnica del ricordo. Così, rivedendo dopo più di quanrant’anni il capolavoro di Olmi, ‘L’albero degli zoccoli’, la memoria si è attivata riportandomi alla condizione del bambino di allora, sfollato in due stanzucce nella Villa delle Statue alla periferia di Ferrara. Si ricordano allora con vivida impressione la vita con i contadini ‘a filò’, le preghiere in comune e il bagno del sabato nella mastella e gli odori di terra e di umanità; così il ricordo diventa vita e verità. Il nostro comune destino fatto di cose semplici ottenute con la fatica e il sudore. Poi la Storia riporta alla mente le immagini della stalla occupata dai tedeschi e piena di munizioni, gli scoppi delle bombe, la coltre che mi si getta addosso per correre al rifugio, e il sangue del ginocchio della mamma quando incespica e cade. E il pianto inconsolabile del bambino che ero e che mi ha condizionato per sempre nella mia ormai lunga vita.
Memoria involontaria direbbe Proust mentre la madeleine che rammemora perde il dolce per assumere sapore d’assenzio.

Con il fondamentale tema della memoria, ovvero ciò che riscatta nel Novecento la funzione e il senso del narrare, si misura in modo strenuo Giorgio Bassani di cui nel 2016 si sono celebrati i cento anni della nascita. Un tempo infinito che solo la volontà, non più la non-volontà, della memoria restituisce al senso della vita, ma soprattutto della Storia, ‘morantianamente’ quella che si scrive e si vive con la esse maiuscola, la storia ufficiale.
Bassani nella complessa rielaborazione del ‘Romanzo di Ferrara’ uscito nell’edizione ne varietur del 1980 per Mondadori propone una sequenza che è anche cronologica degli scritti che lo compongono, nell’ordine: le ‘Cinque storie ferraresi’ (1956), il ‘Giardino dei Finzi-Contini’ (1962), ‘Gli Occhiali d’oro’ (1963), ‘Dietro la porta’ (1964), ‘L’airone’ (1968) e infine ‘L’odore del fieno’, raccolta di racconti del 1972. Un’opera unitaria, quindi, che si modella su ‘capitoli’ o meglio momenti entro il comun denominatore della città dove si svolgono tutte le narrazioni. Tra questi, il romanzo forse più vicino a una quasi perfetta assimilazione tra l’autore e colui che dice io, secondo l’insegnamento proustiano che ci ha abituati a scandire le differenze tra personaggio narrante e autore, così complesso tanto da dividere la critica tra chi lo considera l’opera più intensa di Bassani e chi la vede come un tentativo fallito. E’ ‘Dietro la porta’ che si svolge nell’anno scolastico 1929-1930, retrodatando di alcuni anni la permanenza dell’autore presso il Liceo Ariosto di Ferrara. L’arco temporale è racchiuso nei termini dell’anno scolastico e del passaggio dal ginnasio alla prima Liceo dove si ritrovano gli allievi della sezione A e B. Il personaggio che narra è il campione della sezione B e deve misurarsi con quello della A, Cattolica. Le azioni e reazione di una comunità come quella scolastica con i suoi riti e miti dove, secondo l’immagine classica, gli allievi sono i carcerati, la scuola una prigione e i carcerieri sono gli insegnanti, determinano uno scontro con la Storia dovuto al fatto che l’io narrante è un ragazzo ebreo che tenta – e in questo si compie l’azione del romanzo – di uscire dalla porta in cui si è nascosto per affrontare il mondo, ma soprattutto la sua condizione di ‘diverso’.

L’arrivo di Luciano Pulga che incarna tutte le ambiguità, le crudeltà e l’ambivalenza del pensiero che porterà alle leggi razziali, quindi allo scontro terrificante con la Storia fuori dalle mura di una città ambigua, unica nel panorama italico ad avere un podestà ebreo, il massimo ossimoro, rincrudisce la ferita mai chiusa del destino di un personaggio che qui diventa quasi sempre alter ego dell’autore. Nella trappola tesa al protagonista che ascolta dietro la porta l’osceno giudizio su di lui e su sua madre pronunciato da Pulga, la ferita provocata non si rimarginerà, e col suo carico di dolore e di morte chi dice ‘io’ fugge nel buio della città senza affrontare chi potrebbe guarirlo dalla ferita. Affrontato dantescamente a viso aperto.
Quel tempo allora dovrebbe esprimere una continuità con la Storia, ma l’autore Bassani non può ne vuole affrontare, lui umiliato dalle leggi razziali, lui combattente a Firenze nella Resistenza, la condizione storica se non attraverso la vicenda privata. Non è un caso che il romanzo sia scritto nell’anno fatidico dei processi di Francoforte, dove la responsabilità dei torturatori è smascherata e viene punita. Non è un caso che Bassani eviti di parlare direttamente della Shoah se non attraverso il destino dei suoi personaggi, che simboleggiano l’impossibilità di misurare il tempo della Storia con quello privato: Micòl rimane dentro le mura per permettere la testimonianza del narratore a sua volta legato alla consapevolezza che il fascismo come forma di nazionalismo è condiviso dai suoi correligionari, dal padre stesso. Ma quella testimonianza della diversità che ne ‘Gli occhiali d’oro’ accomuna il dottor Fadigati, che non esita a proclamare la sua diversità omosessuale difeso dal giovane ebreo, viene sconfitta dal terrore di doverla ammettere. Persino l’irrisione di Pulga, che predice un destino di ‘finocchio’ e di ‘busone’ al protagonista attraverso l’esame reciproco del sesso, non produce la reazione del protagonista, quasi ammaliato dalla predizione di una svolta nella storia verso cui si tenta di reagire, ma che porterà non a caso al destino di suicidio del Limentani de ‘L’airone’, il capolavoro delle scrittore. Le ferite dell’airone che si esita a uccidere portano al suicidio del protagonista, incapace di uscire da dietro alla porta.

Che Bassani non abbia mai parlato pubblicamente della Shoah misurandosi con le voci che di là provenivano, ad esempio con la testimonianza di Primo Levi è un fatto acclarato. Il ritorno di Geo Josz dal campo nella storia ferrarese de ‘La lapide di via Mazzini’ è storia vera appena nascosta dal nome di un amico di Bassani, cugino del suo primo allievo, quel Paolo Ravenna a sua volta figlio del podestà ebreo: Gegio Ravenna. Geo vuole rompere il silenzio che avvolge di brume mefitiche la città; ma nemmeno gli schiaffi che assesta al vecchio fascista e informatore, il conte Scocca che rimbombano “nel profilo assonnato , decrepito” della città, riescono a smuovere le convinzioni della citta ‘delle cento meraviglie’. Ancora una volta l’offesa della Storia si misura in un episodio privato.
E la chiusa di ‘Dietro la porta’, che affronta ‘la ferita indicibile’, si presenta come l’impossibilità di uscire dal tunnel.
Pulga va a trovare al mare il narratore che ancora una volta, attratto dalla ambiguità dell’amico-nemico, lo carica su un moscone (la versione emiliana del pattìno) e lo porta al largo sapendo che non sa nuotare, per fargli conoscere il senso della paura: “Senonché, nel momento stesso in cui, dinanzi a quel gramo dorso nudo, remoto, a un tratto, inattingibile nella sua solitudine, mi abbandonavo a questi pensieri, già qualcosa doveva pur dirmi che se Luciano Pulga era in grado di accettare il confronto della verità, io no. Duro a capire, inchiodato per nascita a un destinodi separazione e di livore, la porta dietro la quale ancora una volta mi nascondevo inutile che pensassi di spalancarla. Non ci sarei riuscito, niente da fare. Né adesso, né mai.”
Si conclude così uno dei più strazianti bildungsroman, romanzi di formazione, della letteratura del Novecento.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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