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Proprio mentre il Festival di Internazionale porta l’attenzione sul mondo globale, vale la pena di riflettere sulla diffusa delusione che accompagna la globalizzazione in tutto l’Occidente. A ciò concorrono diverse cause: le tensioni prodotte dai flussi migratori, le crescenti diseguaglianze nei paesi all’interno dei paesi sviluppati, l’erosione della sovranità su cui gli stati-nazione avevano impostato il discorso politico. La globalizzazione incontra resistenze crescenti fino a riassumere una gran parte dei sentimenti di ostilità che in tutto il mondo si manifestano verso gli assetti delle odierne democrazie. I partiti populisti cavalcano ampiamente questi sentimenti di paura e di chiusura, accreditando l’infondata illusione che la globalizzazione sia un processo che si può arrestare, magari ostacolando qualche trattato di commercio internazionale.
Ritengo che il tema occuperà l’agenda politica per diversi anni, per questo vorrei proporre un paio di riflessioni.

La prima riguarda il futuro della globalizzazione. È possibile immaginare un rallentamento o addirittura un ritorno al passato? Alcuni studiosi sottolineano che il commercio internazionale rallenta e che la globalizzazione è entrata in una fase di stanchezza. Al contrario, sostiene Parag Khanna – esperto di geoeconomia – nel suo recente libro “Connectography”, il processo di connessione mondiale è destinato ad andare avanti. I nove miliardi di abitanti del pianeta sono più collegati che mai. Nel 2012 i container che hanno viaggiato su rotaia fra le due estremità della grande distesa euroasiatica sono stati circa 2.500; il loro numero dovrebbe arrivare a sette milioni e mezzo entro il 2020. Il commercio tra le due sponde dell’Atlantico vale mille miliardi di dollari all’anno. Gli investimenti in infrastrutture stanno oggi connettendo paesi che appartenevano a blocchi opposti. Ovviamente gli esiti di queste connessioni non sono solo economici. Nessun muro potrà impedire enormi travasi di popolazione. Come spiegano i demografi, con gli attuali tassi di natalità, nel 2050 l’Europa sarà abitata da 340 milioni di individui, contro i 500 milioni attuali; l’Africa avrà 2,5 miliardi di abitanti, contro il miliardo di oggi e la Nigeria avrà più abitanti del continente europeo.

Il secondo punto riguarda i sentimenti di ostilità che la globalizzazione ha sollecitato. Credo che archiviarli solo come squallide espressioni di sentimenti anti-solidali sia sbagliato, si tratta piuttosto di comprendere quali fatti sociali esprimono. La globalizzazione ha visto, a oggi, vincenti e perdenti: vincenti sono i lavoratori a elevata scolarità, che hanno colto le sfide della mobilità, che hanno dimestichezza con le tecnologie digitali, percorrono il mondo come un unico e immenso spazio aperto, mentre i perdenti sono la larga parte di lavoratori a bassa scolarità, senza competenze professionali, relegati nella fascia bassa del mercato e a forte rischio di marginalità. Con questi lavoratori non qualificati sono in competizione i cittadini immigrati: non basta ricordare che la gran parte dei lavori da questi svolti sarebbe rifiutato dai cittadini italiani. Un articolo di Luca Ricolfi sul Sole 24ore del 25 settembre riportava alcuni dati emblematici: otto anni fa gli stranieri occupati in Italia erano 1 milione e 600 mila, oggi sono 2 milioni 400 mila, ossia il 50% in più. Nello stesso periodo gli italiani occupano 1 milione e 200 mila posti in meno. In sintesi, la globalizzazione aumenta la polarizzazione sociale. I perdenti della globalizzazione sono senza dubbio i ceti medio bassi delle economie avanzate. È comprensibile che questi ultimi siano catturati dal linguaggio demagogico di chi promette di ripristinare i confini nazionali. Ciò non è realistico, ma per contrastare questa tentazione servono politiche, non certo orientate al protezionismo. Ma su questo torneremo.

Maura Franchi insegna Sociologia dei Consumi presso il Dipartimento di Economia di Parma. Studia le tendenze e i mutamenti sociali indotti dalla rete nello spazio pubblico e nella vita quotidiana. maura.franchi@gmail.com

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Maura Franchi

È laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del Prodotto Tipico. Tra i temi di ricerca: le dinamiche della scelta, i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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