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Pare che nella corsa a fare il sindaco a mancare sia proprio la città. Intendo l’idea di città.
Sembra che la città sia qualcosa di esterno a noi e in quanto tale vada amministrata, qualcosa che è a prescindere da chi la abita.
La città senza i suoi abitanti è una costruzione morta, e chi mai si proporrebbe per amministrare un corpo senza anima?
La città, dunque, siamo noi: i suoi abitanti. Senza di noi non c’è la città. Ciascuno di noi è un frammento di quella comunità a cui attribuiamo il nome di città.
Ma non basta, occorre che la città sia pensata come luogo dove le persone sono la prima risorsa. La risorsa che la crescono e le forniscono fisionomia.

La qualità della città siamo noi che l’abitiamo e tutte le volte che c’è da scegliere la sua amministrazione prima delle cose da fare è di noi che si dovrebbe ragionare.
Quando nasce spontanea la partecipazione per scrivere insieme la città che vogliamo, dovremmo chiederci che parte ci proponiamo di fare, come intendiamo essere città, per evitare che idee e programmi finiscano col sopravanzare, fino a farci perdere di vista noi stessi e chi ci sta vicino.
Che tipo di comunità vogliamo essere, come vogliamo stare insieme. Sostanzialmente come intendiamo riconoscerci in quanto persone con le nostre aspirazioni e le nostre responsabilità.
Si tratta di invertire l’ottica, passare da un’idea di città che è fuori di noi a un’idea di città che è dentro di noi, che ci appartiene, che creiamo e che gestiamo con le nostre scelte e i nostri comportamenti.
La casa che si abita è evidente che la si desideri bella, spaziosa, pulita, accogliente e ognuno per ottenere questo ha la sua ricetta. Ma senza le persone anche la casa meglio tenuta è un guscio vuoto, come la città senza i suoi abitanti.
È di noi che innanzitutto dovremmo parlare, per uscire dalla nebbia che tutto avvolge, come se ognuno di noi della città fosse un caso, anziché l’essenza, la sostanza, la carne, il sangue e il sapore.
Se non ci raccontiamo non sapremo mai quanto la città ci racconta, quanto la città è effettivamente il teatro delle nostre vite.
Dovremmo iniziare esercitandoci a cambiare il punto di vista. Come si sta insieme nella città. Scambiarsi le idee per gestire la città non è sufficiente se non si mettono insieme le persone che della città sono i mattoni.
Le città non sono delle strutture, le città sono vite. Luoghi dove ognuno desidera essere riconosciuto per se stesso, non come cittadino anonimo, ma come identità con un nome e cognome, con una storia di diversità, differenze e sfumature.
Sento l’obiezione di chi osserva che amministrare una città significa occuparsi delle strade, della sicurezza ed altro ancora. Certo, ma prima vengono i singoli residenti con le loro storie di vita, è da lì che discende tutto il resto e non viceversa.
Succede, invece, che spesso l’azione pubblica perda di vista i cittadini catalogandoli a utenza e che le persone non si sentano più comunità, che si vivano come estranee alla comunità stessa, le une verso le altre, tanto che l’azione pubblica invece di favorire più inclusione finisce per provocare crescenti fenomeni di anomia, fino alla paura, al disordine e all’insicurezza.
C’è un salto culturale che va compiuto, che sta nel cogliere la peculiarità del tempo che viviamo, la consapevolezza che la città è il luogo del capitale umano, della più grande risorsa su cui fondarne la crescita e lo sviluppo. Se non si ha questa attenzione tutti i programmi elettorali sono anacronistici, chiacchiere prive di cultura, distanti dal comprendere cosa stiamo vivendo.
A spiegare quale città sia destinata al successo, più che il dato sulle infrastrutture fisiche, è oggi il capitale umano. Viviamo in un’epoca di competenze nella quale profitti e conoscenze sono strettamente collegati. La città delle risorse umane riconosciute e coltivate a partire dalla cura comune per i propri giovani e dei propri anziani, patrimonio della memoria e degli affetti collettivi.
In tutto il mondo sviluppato ormai si è fatto negli anni sempre più robusto il rapporto tra abilità urbane e produttività urbana, vale a dire tra cultura, competenze, studio, apprendimento e crescita della città. Abbiamo necessità di pensare a noi con fiducia, come risorsa, come la risorsa su cui poggia l’essere città. Una città che ragiona di futuro e di intelligenza.
Essere comunità che si fa città, ognuno portando la sua parte di responsabilità, capace di riconoscere nell’altro la risorsa che consente di tenere insieme la città come somma dei dei tanti talenti che la abitano e che ne ritmano giorno dopo giorno il battito vitale.
Contro coloro che promettono una città fortificata con i mattoni della paura, dobbiamo edificare la città casa comune di quella parte del capitale di umanità che vi risiede, che ha cura di sé, che non teme l’altro, ma che futuro e intelligenza possano venire a mancare.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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