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Un sintetico ma efficace pezzo di Camilla Desideri, editor di Internazionale per l’America Latina (Qui), illustra la clamorosa e, per molti versi, inaspettata svolta a sinistra nel governo del Cile, con l’elezione di Gabriel Boric.

Il Cile è una terra di grandi contraddizioni sociali, che ha fatto i conti solo a metà con il tragico periodo della dittatura militare del generale Augusto Pinochet (1973-1990), considerato da molte istituzioni internazionali un genocida. Ricordiamo che la presa di potere della giunta militare, che rovesciò con la violenza il governo legittimo guidato dal socialista Salvador Allende, fu “sollecitata” da una parte del Parlamento, che prese a pretesto per la svolta autoritaria la pesante crisi economica del paese (altro esempio della storia che dimostra quanto possano essere labili i confini tra “democrazia” e “dittatura”, tanto da risolvere spesso l’una dentro l’altra). La risoluzione che mirava a destituire Allende fu adottata dalla maggioranza del Parlamento, ma non raggiunse i due terzi richiesti per essere valida. Ciononostante questa risoluzione bastò a fare da copertura al golpe militare dell’11 settembre 1973, con l’assalto delle Forze Armate al palazzo presidenziale e la cattura di Allende, che secondo la versione più accreditata (confermata anche dalla figlia) si suicidò per non finire nelle mani dei golpisti.

Allende tentò un esperimento socialista molto spinto in campo economico-sociale, in senso più radicale rispetto al suo predecessore Frei Montalva. Completò la nazionalizzazione dell’industria del rame, che era in mano alle imprese statunitensi, ma non le indennizzò per l’ avvenuta espropriazione. Idem per la riforma agraria, che gli mise contro la potente classe dei latifondisti locali. Il primo grande problema della sua gestione fu l’inflazione (causata dall’enorme emissione di cartamoneta), che si mangiò completamente l’aumento dei salari e generò contemporaneamente la scomparsa dagli scaffali dei generi di prima necessità e la loro ricomparsa al mercato nero, nel quale la valuta locale non venne più accettata in pagamento in quanto considerata carta straccia. Il secondo fu il crollo del prezzo internazionale del rame, che era di gran lunga la principale fonte di esportazione. Il terzo fu la nazionalizzazione di ogni attività privata, comprese le banche, che spinse alla fuga gli investitori. La fine dell’esperienza di Allende fu preannunciata dalla rivolta dei ceti popolari (in primis i minatori delle miniere di rame nazionalizzate), che a causa dell’aumento giornaliero dei prezzi non riuscivano più a pagarsi da mangiare nonostante i salari aumentati “per legge”.

Il quarto problema fu che il Cile non poteva diventare un’altra Cuba, un’altra minaccia comunista vicino al cortile di casa statunitense. Il prezzo più caro dell’embargo lo pagano sempre i più deboli, e in Cile era più difficile resistere al boicottaggio economico rispetto a Cuba, perché l’esperimento socialista era inscritto all’interno di un sistema istituzionale di democrazia parlamentare. Verrebbe da dire che Allende rimase in mezzo al guado: per realizzare un sistema economicamente socialista avrebbe dovuto riuscire nell’impresa (tutt’altro che semplice, ammesso che la volesse) di rendere autoritaria la struttura politica e di propaganda – come fece Castro. Non facendolo, avrebbe dovuto essere più prudente nel mettere mano all’economia del paese, perché la forza interna ed esterna del capitale non poteva essere sottovalutata. Ma soprattutto, avrebbe dovuto comprendere che la spirale dei prezzi avrebbe affamato proprio quelle masse che dovevano sostenerlo. E quando il tuo popolo sta peggio di prima, e mi riferisco alla parte di popolo che avrebbe dovuto emanciparsi grazie a te, non c’è ideologia o speranza nell’avvenire che tenga.

Dopo ci furono anni di dittatura sanguinaria e, nel contempo, di liberismo assoluto in campo economico, ispirato alla Scuola di Chicago di Milton Friedman. Il tragico snodo cileno, con il fallimento della “terza via” sudamericana al socialismo, fu uno degli eventi che nel 1973 convinsero Berlinguer, a capo del più forte partito comunista d’Occidente, a riposizionarsi teorizzando il “compromesso storico” con la principale forza d’ispirazione cattolica. (esattamente quello che Allende non fece, pur non avendo la maggioranza assoluta in Parlamento, e con un’economia dipendente in maniera decisiva dalle importazioni dagli USA). Enorme era il rischio, che Berlinguer scorgeva, di una deriva “cilena” nella radicalizzazione dello scontro sociale in Italia; Italia che già da quattro anni era stretta nella morsa delle stragi neofasciste, chiaramente volte a stabilizzare il quadro politico ed economico in senso conservatore, e quindi in quel frangente reazionario verso l’ascesa sociale dei ceti più popolari, che molti traducevano nel “pericolo comunista”.

Se allora le coordinate ideologiche di riferimento del socialismo realizzato erano fruste, ma non defunte, adesso, a distanza di cinquant’anni, di quell’armamentario ideale è rimasta in piedi, in termini di autorevolezza, la pars destruens, cioè la critica marxiana ai meccanismi di creazione del plusvalore in un sistema capitalista. La pars construens, cioè la parte propositiva mirante all’ edificazione di un sistema economico alternativo, ha conosciuto fallimenti insuperabili. Di sicuro non sono spariti lo sfruttamento, la disuguaglianza, la povertà. Contro questi promette di combattere il nuovo Presidente del Cile, Gabriel Boric, un ragazzo trentacinquenne affermatosi come leader delle lotte studentesche ed ora eletto al ballottaggio con una maggioranza composita che gli ha permesso di ribaltare il risultato del primo turno e di battere il candidato di destra Antonio Kast.

Le idee di Boric sono figlie della sua generazione, oltre che della recente storia iperliberista del suo paese: ambientalismo, parità di genere, scuola gratuita, rilancio della sanità pubblica contro lo strapotere classista delle assicurazioni private, pensioni pubbliche contro lo strapotere dei fondi privati. Potrebbero essere proclami generici, che alla prova della realtà potrebbero mostrare i limiti della loro genericità. Però Boric e il suo entourage non hanno solo l’incoscienza e l’inesperienza della giovane età. Avessero solo queste, avrebbero perso il ballottaggio. Invece lo hanno vinto, contro i pronostici, convincendo della propria squadra e aggregando dietro al proprio nome uno schieramento variegato, dai comunisti al centro. Questo denota un pragmatismo che mi permetto di attribuire alle numerose giovani donne che Boric ha inserito in squadra: fra tutte, Izkia Siches, presidente del Collegio Nazionale dei medici cileni, assurta a ruolo di grande autorevolezza durante l’epidemia da Covid per avere consigliato al Governo di chiudere Santiago per evitare l’aggravarsi della situazione sanitaria.

Per intanto, questo gruppo di giovani ha portato a votare il maggior numero di persone nella storia elettorale del Cile. Per intanto, questo gruppo di giovani, forse anche per il fatto di non avere provato direttamente la vergogna collettiva di quel periodo nefasto, ha ridato entusiasmo e passione (guarda il video) ad un popolo violentato, piegato, stremato da una dittatura feroce e da una elaborazione dolorosa e interminabile di quel lungo, irredimibile lutto.

 

“Il popolo deve difendersi, ma non deve sacrificarsi. Il popolo non deve lasciarsi spazzar via né massacrare, però nemmeno può umiliarsi. Lavoratori della mia patria, ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro nel quale il tradimento vuole imporsi. Sappiate che, quanto prima, si apriranno nuovamente grandi strade dove cammina l’uomo libero, per costruire una società migliore. Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori!

Queste sono le mie ultime parole, ma sono certo che il mio sacrificio non sarà vano, ho la certezza che, almeno, sarà una lezione morale che castigherà la slealtà, la codardia e il tradimento.”

Salvador Allende

 

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Nicola Cavallini

E’ avvocato, ma ha fatto il bancario per avere uno stipendio. Fa il sindacalista per colpa di Lama, Trentin e Berlinguer. Scrive romanzi sui rapporti umani per vedere se dal letame nascono i fiori.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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