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L’università italiana è malata di competizione. Periscopio ha già ospitato (qui) un commento al discorso che Alessandra De Fazio, presidente del Consiglio degli Studenti di Unife, ha fatto al Teatro Comunale, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico cui era presente, tra le autorità, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Il discorso ha toccato temi già affrontati nel 2021 da tre studentesse della Normale di Pisa, durante la cerimonia di consegna dei diplomi di laurea (leggi qui). De Fazio ha smascherato il mito della meritocrazia: una parola dietro la quale si cela un sistema basato sulla pura performance in unità di tempo. Ha denunciato il sistema delle borse di studio, “molto complesso a causa di sbarramenti burocratici, socio-economici e soprattutto meritocratici. Ma badate bene, ci viene data la possibilità di redimerci dalla nostra condizione di povertà, come fosse una colpa, a patto di esserne meritevoli, conseguendo risultati eccellenti entro periodi di tempo cadenzati e ristretti, tutto allo scopo di misurare quanto siamo performanti e catalogarci giusti articoli di una intensa produzione con il risultato di generare grandi bilanci sacrificando il benessere e la qualità del percorso accademico”.
Quindi: eccellenza (non buoni risultati), in tempi strettissimi (si impara una materia primaria studiandola 20 giorni e notti, o si passa un esame? a quale prezzo psicologico?) e da poveri (se non hai un Isee da indigente non hai diritto alla borsa).

“Si pensa banalmente che il merito possa essere un criterio equo, sostituto del vecchio privilegio del quale invece ha ereditato tutto il divario e la disparità, ma con una mutazione acquisita: l’ipocrisia. Le borse di studio sono un ricatto. Se tutti abbiamo lo stesso diritto perché qualcuna dovrebbe essere costretta a tenere tempi più serrati solo perché è più povera? Il sistema universitario è classista”.

De Fazio non denuncia semplicemente che le “pari opportunità” valgono solo per chi è povero in canna e, in quanto tale, deve dimostrare di essere un genio.
Quando parla del disagio mentale di chi non performa abbastanza per uscire dal mucchio e diventare un ‘povero che ce l’ha fatta’, dice qualcosa di più profondo, in cui risuona l’eco delle idee del professor Vittorio Pelligra, quando afferma: “(la meritocrazia) si basa su due assunzioni, verosimili, ma false entrambe: la prima, che i meriti individuali siano evidenti, facili da identificare, classificare – tu più, tu meno – e da ricompensare. La seconda, falsa anch’essa, che il mercato, e, più in generale, la logica della competizione, sia il meccanismo più efficace nel riconoscere e premiare tali meriti”. Mitizzare la meritocrazia significa spesso travestire con un abito figo una riproduzione familista della classe dirigente, come quando ancora Pelligra dice: “Il problema… non nasce quando desideriamo che la persona più capace diventi il neurochirurgo che vorremmo ci operasse nel caso ne avessimo bisogno, ma quando l’ideologia meritocratica rende più probabile, per il figlio di quel chirurgo, diventare quello stesso neurochirurgo per qualcun altro e quando questo, di conseguenza, rende più difficile ai figli di altri, indipendentemente dalle loro capacità, provare a diventare quello stesso chirurgo e, che, infine, questi privilegi ereditari vengano giustificati sulla base dei concetti di merito e demerito.” (leggi qui l’articolo di Periscopio che cita diffusamente il lavoro del prof. Pelligra).

Non la vedete attorno a voi questa riproduzione classista e familista?
Quanti stimati chirurghi, notai, manager sono figli di un carpentiere, di una donna delle pulizie, di un manovale?
Uno su mille ce la fa, cantava Gianni Morandi: una frase, nella sua semplicità, più aderente alla realtà di tanti slogan ottimisti sui “capaci e meritevoli” che vogliono e, quindi, possono. No, la stragrande parte vuole ma non può, e non potrà né oggi né mai.

Naturalmente un arrivato come il deputato Luigi Marattin, laureatosi a Ferrara, anch’egli presente tra le autorità, non ha perso l’occasione di stigmatizzare, su un quotidiano locale, le parole di De Fazio, scrivendo che “non ha voluto neanche ragionare più approfonditamente sul concetto di meritocrazia”.
E’ vero esattamente il contrario: quando Marattin fa la caricatura di De Fazio, descrivendola come una che vagheggia “un mondo in cui ci sono solo diritti e nessun dovere”, fa un’affermazione talmente superficiale da offendere persino la propria, di intelligenza.

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Nicola Cavallini

E’ avvocato, ma ha fatto il bancario per avere uno stipendio. Fa il sindacalista per colpa di Lama, Trentin e Berlinguer. Scrive romanzi sui rapporti umani per vedere se dal letame nascono i fiori.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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