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Per molti decenni in Italia la produzione di biogas si è realizzata prevalentemente in ambito agricolo per ricavare energia, da utilizzare prevalentemente all’interno delle stesse aziende, utilizzando gli scarti della attività di questo comparto, sostanzialmente biomassa vegetale e deiezioni animali. Oggi questa tecnologia, nel nostro paese e non solo, sta assumendo una rilevanza che senza dubbio si può considerare preoccupante per l’impatto ambientale complessivo che comporta. Secondo i dati del Consorzio Italiano Biogas (CIB), all’inizio del 2020 erano operativi più di 1.500 impianti di biogas, di cui 1.200 in ambito agricolo.

Nella mattinata di sabato 18 marzo si è tenuto, presso la sala congressi della sede provinciale CNA, un incontro-dibattito organizzato dalla Rete per la Giustizia Climatica di Ferrara sul tema della produzione di biogas che ne ha affrontato gli aspetti generali e le ricadute ambientali con un riferimento particolare alla situazione nella nostra provincia.

Il primo ad intervenire è stato Leonardo Setti, docente dell’Università di Bologna, esperto nell’ambito della biochimica industriale applicata ai sistemi energetici rinnovabili ed in particolare allo sviluppo di bioraffinerie per la valorizzazione chimica ed energetica degli scarti agro-alimentari, che ha trattato il tema “Quale energia nella transizione ecologica”. Di seguito, in video, Gianni Tamino, biologo, membro della Associazione italiana Medici per l’Ambiente (ISDE) e già docente dell’Università di Padova nonché europarlamentare del gruppo dei Verdi, è intervenuto sul tema “Biometano ed economia circolare”. Sono poi seguiti gli interventi di Rosolino Sini, responsabile dell’azienda elettrica comunale di Sassari, di Sandra Travagli per l’esperienza di Villanova e Andrea Bregoli del Comitato di Formignana in provincia di Ferrara. Un ulteriore contributo, in audio registrato, quello di Pippo Todolini del Coordinamento ravennate per il clima fuori dal fossile.

Può essere utile per iniziare una considerazione di fondo, citando le parole con cui Gianni Tamino apre il suo intervento in video: la produzione di biometano non è un metodo né economico né pulito, ma, soprattutto, non lo si può considerare “economia circolare””. L’unica vera economia circolare, ribadisce Tamino, è quella della natura che, attraverso l’energia solare utilizzata dagli organismi vegetali, sintetizza materia organica che funge da nutrimento per gli organismi animali; questi ultimi, assieme ai vegetali, quando muoiono, vanno incontro a processi di decomposizione che danno luogo all’humus, nutrimento per la terra, da cui nasceranno nuove piante, in un ciclo continuo.

Un’altra precisazione è necessario fare rispetto al termine Bio che troviamo nella terminologia degli impianti che trattano materiali organici, i Biodigestori, e i prodotti che ne derivano, Biogas e Biometano. Il prefisso bio, in questo caso, non ha un significato che possa riferirsi a un processo o prodotto sostenibile, ma un riferimento a un processo Biotecnologico, cioè l’applicazione alla produzione industriale di organismi e processi della biologia. Il termine “bio”, dice Tamino, significa vita e richiama l’idea di origine naturale e organica, ma anche il petrolio e il carbone in fondo sono di origine naturale. Al termine “bio” viene normalmente attribuita una valenza positiva e “naturale”, e di conseguenza queste tecnologie vengono in tal modo considerate far parte della cosiddetta “green economy”. “La mistificazione del linguaggio, conclude Tamino, in questo caso, è “strumentale a una politica di proliferazione di queste tecnologie sotto l’ombrello dell’ecologia e del rispetto della natura”.

In buona sostanza il biogas è il prodotto di un processo di bioconversione, intendendo questa come la trasformazione energetica basata su un processo biologico, e, per estensione, a tutte le tecniche che producono energia partendo dalla materia vivente. Più precisamente il biogas viene ottenuto dalla fermentazione anaerobica di materiali organici adatti allo scopo, che vengono detti biomasse.

Un’altra considerazione da fare, prima di analizzare compiutamente le tematiche affrontate nell’incontro, è che la problematica affrontata non è affatto nuova. Lo conferma un testo di parecchi anni fa – Il biogas, Longanesi, 1979 – che contiene la definizione di biogas e la descrizione delle prime e più significative esperienze di applicazione della fermentazione anaerobica di reflui e biomasse in Europa e nel mondo. Oggi questa tecnologia, nel nostro paese e non solo, sta assumendo una rilevanza che senza dubbio si può considerare preoccupante per l’impatto ambientale complessivo che comporta.

Per molti decenni in Italia la produzione di biogas si è realizzata prevalentemente in ambito agricolo per ricavare energia, da utilizzare prevalentemente all’interno delle stesse aziende, utilizzando gli scarti della attività di questo comparto, sostanzialmente biomassa vegetale e deiezioni animali. Secondo i dati del Consorzio Italiano Biogas (CIB), all’inizio del 2020 erano operativi più di 1.500 impianti di biogas, di cui 1.200 in ambito agricolo.

Nel testo sopra citato vengono riportati alcuni interessanti esempi relativamente alle rese in gas prodotto dal processo fermentativo e riferiti al tipo di biomassa utilizzata: nel caso del frumento da 1 ha di coltura si ottengono mediamente 3,5 tonnellate di paglia, che, “biodigerita”, fornisce circa 700 m3 di biogas, cioè 4,2×106 Kcal/anno; da 1 ha di giacinti d’acqua (in clima tropicale) si ottengono 3.000 tonnellate di biomassa che fornisce circa 30.000 m3 di biogas, cioè 180×106 Kcal/anno; infine da 1 ha di cereali, usati come mangime per bovini, si ottengono 4 tonnellate di deiezioni che, una volta trattate nel biodigestore, forniscono circa 450 m3 di biogas corrispondenti a 2,7×106 Kcal/anno. Questi dati fanno chiaramente intuire quale sia la convenienza a trattare le diverse tipologie di biomassa.

Date queste premesse, è legittimo domandarsi se per produrre energia questo tipo di tecnologia sia idonea e, inoltre, quale può essere il contributo offerto da essa rispetto ai consumi previsti negli anni a venire. Le risposte non sono per niente semplici.

Riferendosi a questi aspetti, il professor Setti ha svolto una serie di considerazioni sulla produzione di biogas nel nostro paese partendo dalla necessaria premessa di quali oggi siano le fonti che, nelle diverse forme, vengono utilizzate per la produzione energetica e quali i consumi e le evoluzioni previste, tenendo ben presente la differenza fondamentale tra i prodotti che forniscono direttamente energia termica (sostanzialmente i diversi tipi di combustibili) e le tecnologie che forniscono energia elettrica per gli usi domestici e industriali.

In seguito sono stati illustrati i dati sulla potenziale produzione di biometano in Italia, e sui materiali utilizzabili nei digestori. La quota più rilevante tra i materiali organici è rappresentata dalle deiezioni animali (130.000.000 di t/anno), seguita dai FORSU (Frazione Organica dei Residui Solidi Urbani) con 10.000.000 di t/anno, quindi i residui colturali (8,5 milioni di t/anno) e a seguire gli scarti agro-industriali con 5 milioni, i fanghi di depurazione con 3,5 milioni di t/anno e infine le colture energetiche equivalenti alla produzione di 200.000 ha di coltivazioni. Il trattamento di queste biomasse porterebbe ad una produzione stimata di circa 11 miliardi di m3 di biogas/anno, corrispondenti a 20 TWh (terawattora)/anno di energia elettrica.

Attualmente l’Italia, nel settore biogas, si colloca al quarto posto al mondo dopo Germania, Cina e Stati Uniti, con circa 2200 impianti operativi, di cui circa 1.730 nel settore agricolo e circa 470 nel settore rifiuti e fanghi di depurazione, per un totale di circa 1.450 MWe (megawatt elettrici) installati. Di questi, secondo il Gestore Servizi Energetici, circa 1000 sono nel settore agricolo.

Dai biodigestori, in funzione del materiale trattato, si ottiene una miscela costituita da metano (CH4) mediamente per il 60-70%, anidride carbonica (CO2), ossido di carbonio (CO), acqua, idrogeno solforato (H2S), ossigeno, azoto, ammoniaca (NH3) e altre sostanze. Per arricchire in metano questa miscela si applicano tecniche dette di upgrading che hanno appunto lo scopo di rendere massima la percentuale di questo gas fino a valori del 95/99%.

Il potenziale di sviluppo della filiera biogas/biometano nel breve/medio termine è consistente: stime del CIB-Consorzio Italiano Biogas identificano un potenziale produttivo al 2030 di 8-10 miliardi di m3 di biometano, pari a circa il 11-13% del consumo attuale di gas naturale in Italia e superiore all’attuale produzione nazionale.

Leggendo quanto viene comunicato su siti e pagine rintracciabili in rete, il biogas e relativa filiera vengono esaltati e definiti fonti e modelli di “energia rinnovabile”. Come esempio vale la pena riportare quanto si legge nel sito del Consorzio Italiano Biogas  quale realtà più rappresentativa di questo settore produttivo: “Il Consorzio Italiano Biogas è la prima aggregazione volontaria che riunisce aziende agricole produttrici di biogas e biometano da fonti rinnovabili [?]; società industriali fornitrici di impianti, tecnologie e servizi per la produzione di biogas e biometano; enti ed istituzioni che contribuiscono alla promozione della digestione anaerobica per il comparto agricolo. Il CIB è attivo sull’intera area nazionale e rappresenta tutta la filiera della produzione di biogas e biometano in agricoltura, con l’obiettivo di fornire informazioni ai Soci per migliorare la gestione del processo produttivo e orientare l’evoluzione del quadro normativo per favorire la diffusione del modello del “Biogasfattobene®” e raggiungere gli obiettivi al 2050 sulle energie rinnovabili e la lotta al cambiamento climatico.”.0
Una breve annotazione a questo testo: le “fonti rinnovabili” per la produzione di biogas e biometano a mio parere non lo sono affatto. Reflui, scarti agroalimentari, deiezioni animali, biomasse vegetali, ecc. non si possono considerare “rinnovabili”, anche se molti le inseriscono in questa categoria.

L’altro testo è ripreso dal sito della rivista Quale Energia [1], pubblicato a fine novembre del 2022: In Italia il biometano ha grandi potenzialità e potrebbe portare il nostro Paese ai primi posti europei nella produzione di gas “verde”. Ci sono però diversi ostacoli da superare, dalla complessità e lentezza delle autorizzazioni ai colli di bottiglia nella logistica, mentre i recenti sviluppi normativi – in particolare il decreto ministeriale con gli incentivi al biometano pubblicato in Gazzetta ufficiale a fine ottobre – dovrebbero dare nuovo slancio al settore. Quali sono allora le prospettive del biometano sul mercato italiano? Se ne parla in un nuovo studio della società di consulenza BIP. Gli autori ricordano che il piano REPowerEU punta a produrre 35 miliardi di metri cubi di biometano al 2030 in Europa (oggi: 3 mld m3) e che in Italia si dovrebbe arrivare a 6 miliardi di metri cubi. Sarebbe un balzo notevole visto che oggi nello Stivale la produzione annuale di biometano è di appena 220 milioni di m3. Ci sono opportunità per realizzare oltre 1000 impianti entro il 2026, riporta il documento, tra conversioni di unità a biogas e impianti del tutto nuovi. E secondo le stime di RSE (Ricerca sul Sistema Energetico), citate dallo studio, la potenzialità italiana sale a circa dieci miliardi di m3 di biometano al 2050. Anche qui tutto positivo, gli unici problemi sono quelli della burocrazia.

Pochissimi i casi dove si evidenziano pregi e difetti di questa tecnologia. Tra questi il sito di Sorgenia  dove, a proposito della logistica dei siti produttivi si legge che “la pianificazione di un impianto deve valutare attentamente il bacino di approvvigionamento delle biomasse in ingresso, che se reperite a distanza troppo elevata rendono l’attività ambientalmente ed economicamente non sostenibile”.

L’insieme delle problematiche relative alla realizzazione e gestione di biodigestori per biogas è stato affrontato dal professor Tamino, il quale afferma quanto siano inutili e dannosi per l’ambiente e la salute le centrali a biogas e gli impianti di biodigestione anaerobica che vengono costantemente proposti su tutto il territorio nazionale per conseguire importanti incentivi economici, in quanto anch’essi spacciati per fonti rinnovabili quando in realtà lo sono soltanto formalmente.

Si può infatti parlare di fonti rinnovabili, continua Tamino, “solo se nel territorio di origine e nel tempo di utilizzo quanto consumato si ripristina. Ciò vale per l’energia solare e quelle derivate come il vento e l’energia idrica, ma non si applica totalmente alle biomasse intese come materiale prodotto da piante e destinato alla combustione. Se viene distrutto un bosco per bruciarne la legna, il bosco non si rigenera nel tempo di utilizzo per la combustione della legna. E’ possibile usare solo il «surplus» dell’attività forestale. Ancora più complesso il discorso se le biomasse provengono da colture agricole dedicate”. In questo caso un impianto alimentato da coltivazioni dedicate ha un bilancio energetico molto basso in quanto occorre da un lato calcolare l’energia necessaria per la produzione agricola (fertilizzanti, fitofarmaci, irrigazione, trasformazione, trasporti, ecc), dall’altro quella necessaria per far funzionare l’impianto. Oltre a ciò, afferma Tamino, “alimentare un impianto a biomasse con prodotti agricoli (mais, triticale, ecc.), che consumano terreno utile per produrre cibo, è un problema anche di ordine «etico»: mentre in varie parti del pianeta vi sono difficoltà di approvvigionamento e il nostro paese ne importa dall’estero, si preferisce utilizzarli come materiali nei biodigestori”. Va poi tenuto presente che “se si dovesse coprire il 10% del fabbisogno energetico italiano utilizzando biomasse, occorrerebbe una superficie di coltivazione grande 3 volte l’Italia”.

Va poi detto che le centrali a biogas, dal punto di vista sanitario, non sono affatto innocue. La fermentazione anaerobica infatti favorisce la produzione di batteri sporigeni anaerobi come il clostridium botulinum che, attraverso il digestato successivamente sparso sui campi come concime, può determinare problemi anche mortali negli animali d’allevamento, specie volatili, ma anche per le persone. Alla luce di queste considerazioni va tenuto ancor maggiormente presente il “Principio di precauzione” ratificato nel 1992 dalla Convenzione di Rio de Janeiro e inserito nel 1994 nel Trattato dell’Unione Europea «in base al quale un prodotto o un processo produttivo non vanno considerati – come si è fatto finora – pericolosi soltanto dopo che è stato determinato quanti danni ambientali, malattie e morti producono, ma al contrario, possono essere considerati sicuri solo se siamo in grado, al di là di ogni ragionevole dubbio, di escludere che possano presentare rischi rilevanti e irreversibili per l’ambiente e per la salute.»[2]

Gli interventi finali della conferenza svolti da Sandra Travagli per l’esperienza di Villanova e Andrea Bregoli per il Comitato di Formignana, mettono con forza l’accento sulle ricadute, a 360 gradi, della produzione di biogas nella nostra provincia. Mi limito ad elencare alcune delle criticità illustrate dai relatori, a cominciare dal consistente aumento della mobilità di mezzi pesanti che si prevede investirà le strade provinciali, già in molti casi parecchio dissestate, per il trasporto dei materiali in entrata e in uscita dagli impianti. Poi i problemi relativi alle notevoli quantità, e alla qualità, del digestato che residua dai processi produttivi del biogas e i connessi problemi derivanti dalla “odorosità” del materiale residuo, sia in fase di stoccaggio che di spandimento sui terreni. Infine tutto l’insieme dei problemi, agronomici in primis, derivanti dalle coltivazioni dedicate per la produzione delle biomasse da trattare negli impianti per il biogas.

Da ultimo, ma di estrema importanza, la mancanza di attenzione e di comunicazione da parte delle amministrazioni competenti nei confronti dei cittadini dei territori interessati. Queste, più volte sollecitate a dare risposte alle tante domande della cittadinanza, mai hanno mostrato interesse ad affrontare pubblicamente e a dibattere queste tematiche che tanta importanza hanno per la vita quotidiana delle aree coinvolte.

[1] https://www.qualenergia.it/articoli/biometano-grandi-potenzialita-italia-tanti-ostacoli-rimuovere/

[2] Rifiuto, riduco, riciclo: guida alle buone pratiche, a cura di Stefano Montanari, Arianna Editrice, 2009.

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Gian Gaetano Pinnavaia

Ho lavorato come ricercatore presso l’Alma Mater Università di Bologna nel settore delle Scienze e Tecnologie Alimentari fino al novembre 2015. Da allora svolgo attività didattica come Docente a Contratto. Ferrarese di nascita ma di origini siciliane. Ambientalista e pacifista fin dagli anni degli studi universitari sono stato attivo in Legambiente e successivamente all’interno di Rete Lilliput di Ferrara fin verso il 2010. Attualmente faccio parte della Rete per la Giustizia Climatica di Ferrara. Sono socio dell’Associazione culturale Cds OdV – Centro ricerca Documentazione e Studi economico-sociali, del cui direttivo faccio parte e collaboro da anni all’Annuario socio-economico ferrarese. Nel 1990 sono stato eletto con la lista “Verdi Sole che ride” nel Consiglio Comunale di Ferrara fino al 1995; in seguito, dal 1999 al 2004 consigliere della Circoscrizione Nord per la lista “Verdi”.

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PAESE REALE

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