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Vivere in attesa che qualcuno arrivi o qualcosa cambi. Come la fidanzata di Montalbano che un bel giorno si è stancata “di un futuro che non arriva mai”, abbiamo chiesto ai lettori se hanno aspettato o fatto aspettare mentre il tempo e la vita passavano oltre.

Perché cambiarlo?

Cara Riccarda,
il tema di questa settimana mi ha portata indietro nel tempo. Avevo ventiquattro anni e stavo vivendo la mia prima storia importante. Quattro anni di fidanzamento con un mio coetaneo, quattro anni spesi non solo ad amarlo ma anche e soprattutto a cercare di farlo crescere. Lui non aveva voglia di studiare, era stato bocciato per ben tre volte e prese il diploma dopo aver trascorso un anno a studiare ogni pomeriggio di fianco a me che preparavo gli esami universitari e ad intervalli regolari lo riprendevo come fanno le mamme coi figli svogliati: “Luca non distrarti, vai avanti”.
Luca era originale e stravagante e mi ero innamorata del suo modo di essere fuori dalle righe ma, dopo aver aspettato – con non poco dispendio di energia – che si diplomasse e aprisse un nuovo capitolo della sua vita, mi sono ritrovata ad aspettare di nuovo che decidesse cosa fare da grande o meglio che gli venisse servita un’opportunità di lavoro su un piatto d’argento.
Quando, mentre scrivevo la tesi di laurea, ha rifiutato di seguirmi in campagna – uno dei tanti lavori temporanei che mi permetteva di mantenere gli studi – ho deciso che ero stanca di aspettare e che la nostra relazione era giunta al capolinea. Ho finalmente aperto gli occhi: di fronte a me non ho più visto il ragazzo originale, esuberante e divertente ma l’immagine sbiadita di una persona che non mi interessava più.
Annalisa

Cara Annalisa,
l’attesa che qualcuno cambi è, secondo me, la più irrisolta. Quante donne si sono infilate nella missione di cambiare un uomo? Cambiarlo, cioè salvarlo, nelle nostre intenzioni megalomani. Ho perso il conto, ma poi ho capito che è sbagliato per lui e per me: per lui perchè magari si va bene così com’è, per me perchè chi sono io per cambiare qualcuno?
Riccarda

Aspettare… o vivere?

Cara Riccarda,
parafrasando Claudio Magris in Danubio: “il possesso presente della propria vita e della propria persona, la capacità di vivere a fondo l’istante e l’assillo smanioso di bruciarlo presto, di adoperarlo e usarlo in vista di un futuro che arrivi più rapidamente possibile e dunque di distruggerlo nell’attesa che la vita, tutta la vita, passi velocemente”, aggiungo ma l’attesa è un male femminile o un male oscuro dell’umanità?
F. D. L.

Caro F.D.L.,
credo non ci sia distinzione di genere in ciò che scrivi. Tutti aspettiamo qualcosa o qualcuno, ma non tutti dedichiamo una vita a questo, come la nostra Livia. Se riuscissimo a isolare l’attesa, confezionarla senza farci troppo dominare e distogliere, allora forse troveremmo quella spinta che ci fa stare nelle cose e nel presente cogliendone la potenzialità. Un po’ atto e un po’ potenza, scegli tu quale per primo.
Riccarda

Campari red passion…

Cara Riccarda,
l’attesa del piacere è essa stessa piacere! Ma deve esserci piacere, altrimenti è solo mettersi in fila. Baci a Livia.
Sam

Caro Sam,
mettersi in fila non piace a nessuno, ma è lì che a volte si finisce quando il piacere dell’attesa diventa inutile. Da un’ovattata sala d’aspetto, ci si ritrova in una coda anonima. Eppure fino a poco prima eravamo comodamente seduti nella saletta. A volte non lo si percepisce nemmeno il cambio di posto, però avviene e nulla è come prima.
Riccarda

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

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Riccarda Dalbuoni

È addetto stampa del Comune di Occhiobello, laureata in Lettere classiche e in scienze della comunicazione all’Università di Ferrara, mamma di Elena.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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