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Vite di carta. I cappotti, il venditore Cagnèra e il professor Lamis

È un mercoledì gelido. L’aria è tersa ma di ghiaccio e le bancarelle del mercato hanno intorno persone a piccoli grappoli che si contraggono per il freddo e intanto commentano coi fiati opachi la temperatura così bassa.

Mentre passo e mi contraggo a mia volta tra un banco e l’altro, ecco che mi torna in mente la filastrocca che mia madre mi ha recitato ogni inverno nelle giornate più fredde. C’è un signore che dice a chi passa nella piazza: “Che frio che frio! Non dico per io, ma dico per tanti che son senza guanti…”. E a lui risponde un altro, che lo squadra da capo a piedi e sbotta: “Badate piuttosto a voi, che siete senza paltò!”

Ecco che si crea il cortocircuito tra la letteratura e la vita: la parola ‘cappotti’ ora mi avvolge la testa, è leggibile ovunque io mi giri. I venditori hanno esposto i capi più pesanti, si vedono giacconi tremolare ai piani alti delle bancarelle gestite da cinesi, altri cappotti imbottiti e bordati di finta pelliccia sono ammucchiati su tutti i banchi di ‘roba da vestire’.

Percepisco la normalità di una situazione come questa e mi sento rassicurata: c’è un bisogno che il freddo dell’inverno ci impone e noi comprando cappotti diamo la nostra sensata risposta.
Però non mi basta pensare così. C’è uno scarto, anzi ce ne sono due che mi vengono in mente a proposito di cappotti. Il primo si riferisce a qualcuno che i cappotti li ha venduti per mestiere, come questi ambulanti che ho all’intorno, ma con un tocco di originalità.

Vado con la mente ad un episodio accaduto negli anni Sessanta del secolo scorso e mi par di sentire le grida festose del nostro venditore provetto, soprannominato Cagnèra (traducibile con “colui che stordisce con fiumi di parole gli avventori e poi vende alla folla appena catechizzata per alzata di mano”), che da un paese vicino al mio è andato a vendere un intero camioncino di cappotti a Vidiciatico, sull’Appennino bolognese. Andato e tornato nella stessa giornata, più soddisfatto che mai. Dov’è lo straniamento? Nel fatto che è il giorno di Ferragosto, e i cappotti a Ferragosto uno li guarda come se fosse la prima volta che li vede. Garantito.

Il secondo punta verso l’alto, fino alle vette della scrittura letteraria. L’autore è Pirandello, la novella ha per titolo L’eresia catara ed è per me una delle più toccanti perché vi campeggia un giovane studente che in nome della pietà umana protegge il suo professore dal dileggio di altri studenti arrivati in massa alla lezione. Mi fa pensare al valore e alla sensibilità di tanti giovani, e molti ne ho conosciuti e ne conosco, insegnando. Mi fa sentire, d’altra parte, il rischio del ridicolo che corriamo non appena ci esponiamo con le nostre passioni alla insensibilità altrui e ai paradossi della vita.

Il professor Bernardino Lamis vive solo per le sue lezioni di storia delle religioni alla Università di Roma. Non ha famiglia, non ha più una casa perché ha ceduto la sua alla petulante famiglia di un fratello morto. Non ha un letto in cui distendersi, non fa pasti regolari, accontentandosi di un po’ di dolciumi comprati lungo il tragitto dall’Università alle due stanzette che ha preso in affitto.

Ciò che gli preme, esclusivamente, è che siano apprezzati dalla critica italiana i suoi due volumi sulla eresia catara. Sull’argomento ritiene di essere il maggior conoscitore a livello europeo. Perciò è “rimasto ferito proprio nel cuore” dal recente saggio di un critico tedesco in cui non è tenuta in alcun conto la sua opera. L’opera della sua vita.

La lezione che ha preparato con cura per gli unici due studenti del suo corso dura da circa tre quarti d’ora, è davvero un capolavoro di retorica e di abilità argomentativa. Bernardino Lamis vi ha sintetizzato tutte le proprie ragioni, l’intero suo sapere sull’eresia catara.

Se ne rende conto l’unico dei due studenti che oggi è venuto a lezione nonostante l’uragano che si è scatenato sull’Urbe. Varca la soglia dell’aula e nella penombra si guarda in giro a fatica. Intravvede numerosi studenti intenti ad ascoltare il professor Lamis, che solo oggi è salito in cattedra, forse per dare imponenza a quel suo fisico gracile dalle spalle ricurve per il troppo studio.

Ecco lo straniamento: paiono studenti seduti sui banchi ad ascoltare in assoluto silenzio, in realtà sono i cappotti (per essere precisi i “soprabiti impermeabili”) lasciati “qua e là a sgocciolare nella buja aula deserta” dagli studenti di legge dell’aula vicina. La novella finisce con questi giovani che, tornati a prendere i loro cappotti, dapprima ridono della scena che si presenta ai loro occhi, poi vengono trattenuti sulla soglia dal Ciotta, l’affezionato studente del professor Lamis. Allora in silenzio si affacciano per godersi “lo spettacolo di quei loro poveri soprabiti che ascoltavano immobili, sgocciolanti neri nell’ombra, la formidabile lezione del professor Bernardino Lamis”.

Molte considerazioni mi si affollano nella mente, soprattutto tecnicismi letterari. Assaporo l’esempio lampante di umorismo che Pirandello ha voluto darci con questa novella, dove il pianto tiene dietro al riso suscitato dalla lezione ai cappotti del professore. Assegno ai paltò gocciolanti il ruolo di una straordinaria metonimia, dove i contenitori suppliscono chi di solito li indossa facendosi il loro contenuto. Rivedo i lineamenti vagamente grotteschi del professore, vero campione dell’espressionismo del suo autore.

Finisco però per ripetere tra me e me la filastrocca. “Che frio che frio! Non dico per io, ma dico per tanti che son senza guanti”. E intanto penso che il passante indicato di sopra a me non potrebbe muoverla la sua obiezione, con tutti i cappotti che ho!

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Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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