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egli angoli delle strade più buie spacciavano permessi fasulli per espatriare in California e bastava addentrarsi tra i vicoli del porto per incontrare marinai con la bandana pronti a vendersi per pochi spiccioli o a tuffarsi in mare anche nella stagione fredda.

Che differenza c’è tra morire e sopravvivere da morti? – mi dice un poeta di strada travestito da gentiluomo di inizio secolo porgendomi il biglietto da visita di un bordello. Gente che ti rivolge la parola senza che nessuno glielo abbia chiesto.

Ho capito che qualcuno o qualcosa ha costretto il governo locale a imporre con un decreto speciale uno stato di follia diffusa, e se sbagli mossa ti spediscono dritto in galera.

Ero finito in quella città perché, così mi avevano detto, qualcuno aveva avvistato Elena spostarsi da un caffè all’altro in compagnia di un grassone vestito da armatore greco, abito bianco largo come una vela e il panama immacolato in mano.

Elena amava il lusso, ma era anche attratta dal luridume urbano. Ne era attratta come chi si immerge nel tanfo di una latrina  per poi godersi l’aria fresca dei dintorni e dirsi

“Hai visto quanto sei fortunata?”. Perché non riusciva proprio a convincersi di essere fortunata, aveva bisogno di rassicurazioni continue. Chissà se poi ha cambiato opinione sul fascino delle avventure giovanili.

Adesso dovrebbe essere sui quaranta, un’età critica per le donne, così dicono, che non sanno più scegliere tra il sesso limitato e quello illimitato, a volte rimangono a lungo intrappolate in quella palude popolata di coccodrilli.

Una prostituta nera, molto grassa, mi scruta e capisce in fretta che la trippa per i gatti è finita da un pezzo. Sono tutti in cerca di qualcosa che non esiste o non è mai esistito. Solo un vuoto gigantesco colmato da un’ansia frenetica senza scopo. Ma se non mi sbrigavo a trovarla in mezzo a quella folla di manichini ubriachi fiaccati dal caldo alla fine avrei perso anche me, oltre che lei.

E infatti mi sto perdendo: violinisti senza fissa dimora con l’archetto in mano sorridono inebetiti a se stessi, uomini d’affari che non si azzardano a scendere dall’automobile e fumano sigarette elettroniche, ragazze dai pantaloni troppo aderenti scrutano il cielo in attesa degli stormi migratori nascosti tra le nuvole, trappole per topi sui marciapiedi, ambulanze con le sirene fuori controllo, poliziotti dai muscoli tatuati incerti se uccidere qualcuno o spararsi in bocca, promotori finanziari con la maschera a ossigeno e il defibrillatore nello zainetto per i clienti in preda al panico da Dow Jones, ciclisti sudati con i caschi di plastica da coleotteri, camion carichi di surgelati che grondano ghiaccio sciolto sull’asfalto.

E mentre contemplo il cosiddetto paesaggio urbano mi sono perso davvero. I cartelli segnalano ‘Senso unico’ oppure ‘Tutte le direzioni’, ma la strada per uscire dalla città non si trova. O forse sono io che in fondo non la voglio trovare. Dovrei prendere un caffè o forse un taxi, ma non mi fido.

Elena, lei sì potrebbe aiutarmi, sa benissimo che sono sulle sue tracce, e chissà dov’è finita in mezzo a dieci milioni di abitanti. Arrivano i pompieri, è scoppiato un incendio giù al circo, sento dire tra la folla.

– Quale circo? – chiedo a un signore distinto dal colorito di cadavere. – Veramente è una fabbrica di cioccolato vicino al circo – rettifica lui – sembra però che gli animali e gli zingari siano in salvo.

Se ne va senza neanche la possibilità di stringergli la mano in un gesto estremo di solidarietà, ma forse lui lo sa che non c’è pietà appena metti il naso fuori da te  stesso.

Questa folla variopinta che si rincorre sui marciapiedi sembra composta da gente che crede di conoscersi, o che forse davvero un tempo lontano si conosceva, ma adesso non sanno più come comportarsi uno con l’altro. Come tanti cani che hanno perso il senso dell’olfatto.

Chi mai potrà davvero essermi d’aiuto? Per quanto tempo dovrò restare qui a cercare Elena senza trovarla? E se mai la troverò sarà un incontro imbarazzante o una rivelazione estatica?

Impossibile saperlo in anticipo, lei è talmente volubile, riesce a veleggiare lungo i marciapiedi dei quartieri alti mezza ubriaca e sorridente, come se invece di camminare galleggiasse, trasmigra da un caffè a un bistrot a un ristorante a un qualche locale di frontiera, dove frotte di idioti bevono e ballano, ma alla fine dei suoi giri approda sempre tra catapecchie e palazzi fatiscenti. E questo mi addolora, forse perché da quando mi ha ingannato, con quel suo tocco delicato, sono diventato troppo sensibile.

Probabilmente è proprio questo il suo fascino, e io sono uno di quegli idioti che le corrono dietro da tanti anni, uomini annoiati da troppe vite vissute e troppe donne, ammaliati da quella sua permanente leggerezza alcolica.

L’ho seguita dalle principali città europee fino in America e adesso qui, in questo scarico intercontinentale di umanità deteriorata, rischiando ogni dieci minuti di farmi portare via la borsa e la vita senza possibilità di scelta tra le due. Soldi ne ho ancora parecchi, ma non dureranno a lungo e non ho tempo da perdere a cercarne altri.

Loro, i ricchi, quelli che secondo l’opinione corrente fanno la bella vita, gente sofisticata senza budella, loro sembrano fatti di carne fresca, leggermente abbronzata, senza data di scadenza, ma che ne sanno gli altri di quanto sia dura e assurda la loro condizione?

Sono un popolo di assediati da invidiosi, paranoici e lamentosi, anche se i cosiddetti ricchi lo sono più di loro: sempre a calcolare la differenza tra le possibilità suggerite dalla fantasia di onnipotenza e quello che poi realmente fanno per paura di spendere troppo. Che ne sapete voi dei dolori, dei dilemmi dei ricchi? Ma inutile prendersela, da troppo tempo mi sono lasciato alle spalle certe preoccupazioni mondane.

Qualcuno tra la folla, un tizio molto alto vestito da gatto con gli stivali – qualcuno mi ha raccontato che era la sua favola preferita da bambina – mi ha lasciato in tasca una lettera anonima e con un breve inchino si è dileguato.

Leggo e scopro che Elena è disperata perché le si è diradato un ciuffo dei suoi celebri capelli biondo sporco proprio al centro della fronte ed è costretta a girare con un toupet. E’ il segnale che attendevo.

Mi sembra di avvistarla all’improvviso seduta su uno di quei barconi cromati per turisti, quelli con sei gigantesche ruote portati in giro dai camion con l’altoparlante e la voce preregistrata, che illustra la storia e gli splendori sgangherati di questa città così amata nel mondo.

Ma non è lei, è solo una giovane donna dal profilo cangiante, pronta a sorridere a chiunque trovi il tempo di guardarla. Sta diventando facile ingannarmi.

All’improvviso, esattamente al primo accenno di inizio di un tramonto rovente, il panorama si fa luminoso, i colori più caldi, e la periferia antica costeggiata da archi medievali e acquedotti romani mi infonde un’energia inaspettata e seguo il ricordo del suo profilo in fuga verso ovest.

Ormai solo archi, file di archi orizzontali e verticali attraverso i quali scorrono come dai finestrini di un treno paesaggi campestri alternati a scorci di palazzi popolari, grattacieli di lusso dalle finestre nere specchianti.

Incomincia a farsi buio, un accenno di crepuscolo che a questa latitudine fa presto a sprofondare nelle tenebre. Ecco, mentre i contorni delle cose sfumano, appare all’orizzonte una montagna nera di carbone, o forse di sassi neri come detriti di ghiaia, messa lì a delimitare la periferia estrema della città: su un grande cartello giallo la scritta “Colle Madera”.

Qui tutto finisce, lo so, perché attraverso un grande arco scavato nella montagna di sassi, vedo luccicare le onde del mare. Sono arrivato all’oceano. Oltre quella montagna troverò Elena, ne sono certo.

Mi arrampico lungo le pareti aspre, a piedi nudi, coperto di polvere nera, le mani escoriate, forse ferito e finalmente dalla cima sassosa, la vedo. Il suo profilo lì sotto mi volge le spalle e contempla il mare.

È notte, è appena sorta la luna alle mie spalle e i primi riflessi illuminano le onde: il paesaggio più straordinario che mai la mia fantasia avrebbe potuto immaginare accoglie la sua ricomparsa.

Quasi rotolando scendo verso di lei, stracciando i resti dei miei abiti estivi da fiera paesana e con l’entusiasmo di un bambino ingenuo le descrivo la meraviglia di tutto ciò che ci circonda, la montagna nera, la luna, l’oceano, gli archi senza i quali non sarebbe possibile vedere i tanti paesaggi di cui è composto il mondo.

Lei si copre la fronte con una mano, poche silenziose lacrime mentre io le sfilo il toupet e la bacio lentamente, a lungo, sulla bocca. Mi rivolge uno sguardo veloce dove si confondono paura, rassegnazione e fantasmi di desiderio.

Ma chi sei tu, veramente? – Rimango sbalordito dall’assurda banalità della domanda. Le sorrido. Sento di avere in mano le carte per eliminare le ultime tracce di vergogna. – Non c’è più nulla da nascondere – le sussurro – La morte ha smesso di inseguirti.

La partita è appena iniziata e il destino, che finora ha alzato barricate, è un avversario incapace di combattere ancora. I fantasmi della notte scendono dal cielo, salgono dal mare e ci guardano dall’alto della montagna nera: siamo circondati, ma nulla può frenare l’entusiasmo né la follia contagiosa esplosa tra i vicoli tortuosi della mia mente.

E mi assalgono brividi mai provati se penso a quanto la vita possa essere dolce se solo qualcuno se ne ricordasse. È terribile, siamo tutti prigionieri di un sogno, forse di un incubo, intrappolati dentro i confini di una città insidiosa, malata, avvelenata di tutti i veleni del mondo. E spero prima o poi di essere sollevato da queste eterne incombenze.

Ma se siamo arrivati su questa spiaggia spazzata dal vento vuol dire che le nostre vite troveranno qui la loro unica, autentica salvezza. Rimane sempre la gioia di contemplare il paesaggio fino all’alba, lasciando tutto ciò che accade in un deserto di oblio. E camminare senza fatica verso un cielo ondeggiante, in perenne cambiamento.

Racconto inedito, proprietà dell’autore.

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Sergio Kraisky

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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