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Fantasmi. Larissa

L’ultima volta che aveva suonato al citofono del villino rosa da poco restaurato, un angolo di lusso a buon mercato, col giardinetto, la statua di gesso e il cancello di ferro nero tra i muri  scrostati di Casalotti, la voce aspra, spezzata di quell’individuo – una voce che ormai nell’odio gli era diventata familiare –  aveva detto: “Larissa è in cucina. Sta preparando il pranzo. Non può ricevere nessuno.”

Come se fosse il suo cameriere, il maggiordomo, invece era il suo padrone. O forse si illudeva di esserlo, chissà davvero come stavano le cose. “Larissa sta preparando il pranzo. Non può ricevere nessuno”. È possibile immaginare una frase più idiota? Mostrava tutto il suo potere sulla schiava russa, quell’infame.

Ogni tanto invitavano a pranzo il vecchio zio diabetico e svanito per fare festa – pensa che  festa! – e lui faceva il padrone di casa, quello stronzo bolso e fottuto calciatore dismesso, con gli occhi celeste piscina e tre capelli bianchi in cima al suo metro e novanta, con il suo villino di merda, dove sta rinchiuso a spassarsela coi videogiochi, col suo bull-dog-schiavizzato che si vendica con la pisciata delle cinque e mezzo del mattino.

Tanto lui se ne frega, va a letto presto la sera per portare fuori all’alba il suo cane viziato, trattato meglio lui di Larissa, se ne frega perché tanto non lavora, ha smesso di fare il tassista e si è intascato un sacco di soldi con l’eredità del padre e della madre morti uno dietro l’altra, dicono. Povero orfano!

Però, guarda un po’, Nikolaj aveva scoperto che i genitori, a parte il villino che aveva succhiato tutti i risparmi di famiglia, erano proprio squattrinati, perciò la storia è un’altra, e cioè, molto semplicemente, mentre il cane piscia lui spaccia e poi racconta in giro la favola dell’eredità. Tutto chiaro. Ogni pisciata del cane – Otello, si chiama la bestia! – un bel po’ di grana intascata da lui. Tu piscia che io spaccio.

Nikolaj li aveva visti durante gli appostamenti, lui, il cane e quei relitti che lo incontravano agli angoli dei caseggiati o nei giardinetti pubblici quando usciva con Otello. Ma come poteva denunciarlo alla polizia, lui, senza permesso di soggiorno? E come faceva ad ammazzarlo, che sarebbe stato ancora meglio? Niente da fare, da tre mesi ormai si domandava come liberare Larissa da quella prigione, ma la risposta non la trovava.

E poi restavano troppe stranezze. Il suo rivale, a cui alla fine bisognerà pur concedere un nome – Cesare si chiamava, come il grande condottiero, Nikolaj lo sapeva molto bene, ma nella sua testa gli rifiutava la possibilità del battesimo – era un tipico delinquente romano di medio calibro, buone relazioni, retroterra da periferia, parlata, camminata, stile di vita e calzini vistosi, proprio tipico, però, però. Perché Cesare non aveva mai tentato di togliere di mezzo il povero Nikolaj? Perché non lo aveva mai picchiato? Perché non gli aveva aizzato contro il cane? E nemmeno aveva mai minacciato di farlo.

In fondo Nikolaj da tre mesi – non aveva mollato neanche un giorno – gli stava alle costole e gli insidiava la moglie. Possibile che lo prendesse così poco sul serio? Chiamava al telefono fisso spesso, anche di notte – alle tre, alle quattro – ma rispondeva sempre lui, Cesare. Lo bombardava di parolacce, certo, ma in fondo sembrava assuefatto a quel suo corteggiamento disperato. Forse soffriva di insonnia, ma non poteva essere una buona ragione per sopportarlo. Nessuno l’avrebbe mai sopportato, meno che mai che un delinquente di Casalotti.

Telefonate, citofonate, inutili scampanellate alla porta quando riusciva a scavalcare il cancello di ferro – tanto Otello dormiva in casa, tutt’al più abbaiava – appostamenti per tutta la notte nascosto dietro o dentro qualche vecchia automobile parcheggiata lì davanti.

Durante quelle notti sentiva gli odori, i colori, la musica della periferia che si alternavano e si mescolavano fino al silenzio delle tre o delle quattro, il silenzio ingannevole che precede la musica dell’alba, la musica preferita da Nikolaj. Lui non si annoiava.

Più di una volta aveva aspettato che alle cinque e mezzo Cesare uscisse con Otello per la pisciata del mattino e aveva scavalcato il cancello e suonato disperatamente alla porta, però mai Larissa aveva aperto né si era fatta viva in alcun modo. Di sicuro aveva ricevuto ordini precisi, era spaventata, magari stava lì  legata al letto. Spesso certi tipi lo fanno, aveva sentito dire.

Ma erano fantasie che gli bucavano il cuore, doveva scacciarle. Solo due o tre volte, la sera, durante gli appostamenti dietro il giardino, gli era parso di intravedere il profilo di lei dietro le tendine della camera da letto che dava sulla strada. Visioni fugaci, solo  pochi secondi.

Cesare non era tipo da chiamare la polizia, non era il suo stile, ma a spaccare tutte le ossa del povero Nikolaj non ci avrebbe impiegato più di due minuti, anche a mani nude. Nikolaj era un dentista ucraino in rovina fisica e morale, non un picchiatore, un uomo mite, dormiva e mangiava per strada. La Caritas gli sembrava un’anteprima del paradiso. Invece no, Cesare non passava ai fatti. E di certo sapeva che lui quasi tutte le notti stava appostato sotto il villino. ‘Non rompere le palle’, ‘Basta!’, ‘Tornatene in Ucraina!’ e, ultima della serie: ‘Larissa è in cucina’. Tutto qui. Solo parole. Perché?

Ormai Nikolaj puzzava come un vero barbone, erano finiti i tempi in cui quelli della comunità ucraina lo consideravano un privilegiato, perché lavorava nello studio di un dentista italiano. Aveva smesso di ricevere clienti di nascosto, di notte, nello studio del dottor Marziani, quando curava i denti sgangherati dei suoi connazionali immigrati e anche di qualche indiano o latino-americano.

Ormai nella sua stessa bocca ballava un vecchio ponte ucraino, costruito venti anni prima, che da un momento all’altro si sarebbe staccato lasciando nude le povere gengive e costringendolo a una dieta di soli liquidi o quasi, ma pazienza. Il dottor Marziani non avrebbe mai creduto che il suo fido Nikolaj, così dolcemente ricattabile, con il sorriso aperto e la faccia da bravo slavo malinconico, oltre a dormire la notte – gratis – nel suo studio avesse messo su una simile attività notturna. Pensieri oziosi, ormai tutto era finito.

È possibile per un ucraino innamorarsi di una donna russa spiandole un molare cariato? A Oleg era successo. Russi e Ucraini in patria si detestano da sempre e ultimamente sono perfino in guerra aperta, ma a Roma finiscono spesso col solidarizzare,  specialmente se ci sono di mezzo i denti da curare.

Oleg era diventato un punto di riferimento per tutti i profughi dell’ex-Unione Sovietica, qualsiasi nazionalismo o ricordo di guerre e ingiustizie patite, odi religiosi, tutto scompariva nel suo studio di notte e tutti gli aprivano la bocca fiduciosi. Gratis o quasi, la parcella, sempre minima, dipendeva dalla simpatia e dalla nazionalità del paziente.

Finchè non fu lei, Larissa, ad aprirgli la bocca. A Nikolaj tremavano le mani, non sarebbe mai riuscito a curarle i denti. Solo dopo una settimana di notti insonni, d’amore furibondo e romantico sul divano del dottor Marziani – tentarono anche, giusto per ridere, sulla poltrona del dentista, ma non funzionò, perché si scivolava ed evocava brutti ricordi – riuscì a infilarle il trapano in bocca senza fare troppi danni e a loro sembrò perfino che quell’operazione non fosse altro che una variante erotica, dolorosa ma intima, del loro amore, si dicevano ridendo, lei con mezza bocca paralizzata dall’anestesia.

Lui la consolava, molte volte gli toccava ascoltare la storia del marito, il padre del suo bambino di sei anni, un ucraino  approdato in Italia con l’idea di fare il pittore – voleva studiare tutta l’arte italiana, diceva – e intanto per campare assisteva gli anziani. Ma non resisteva mai più di una settimana.

“Questi vecchi sono insopportabili!” urlava l’artista, e si prendeva un mese di vacanza nel tentativo di dipingere un bel po’ di quadri per mettere su una mostra. Intanto Larissa  faceva la domestica a ore. Le gallerie di solito lo mandavano a quel paese, la pietà politica pareva non funzionare, qualche gallerista aveva perfino cercato di imbrogliarlo chiedendogli un anticipo per una mostra di quadri che peraltro non  aveva ancora dipinto.

Aveva tentato di fare il madonnaro da marciapiedi, ma era stato minacciato e messo in fuga da certi rumeni che controllavano i marciapiedi più redditizi. Alla fine aveva deciso che a lavorare e a badare al bambino avrebbe dovuto pensarci la moglie, altrimenti lui non sarebbe mai riuscito a fare il pittore.

Erano anche andati alla chiesa ucraina, in cerca di aiuto, ma il pope aveva capito che non erano credenti e aveva detto: “Donna giovane, bella. Se lei va sul marciapiedi, tutta la famiglia è a posto. Che posso fare io di meglio?”

Allora lui era partito affamato ed esaltato per Firenze, la città dell’arte, in cerca dell’ambiente giusto, e Larissa colse l’occasione per lasciarlo, anche se era innamorata. Lui ogni tanto si faceva vivo, le faceva vedere un quadro come prova della sua arte e le chiedeva un po’ di soldi. Lei glieli dava. Nikolaj ascoltava queste storie e la consolava e l’accarezzava. Non era geloso, perché alla fine il pittore si era messo a bere e lei si era disamorata.

Povero Nikolaj! Come si compativa adesso. Ricordava le poesie che le recitava con un piede sul bracciolo della poltrona, le canzoni cantate insieme, e quando trovarono un po’ di cocaina nel laboratorio e si fecero una sniffata, poi la vodka regalata da alcuni pazienti e gli strepitosi progetti per il futuro.

Ritorno a Odessa era il titolo della più schifosamente strappalacrime poesia scritta e recitata da Nikolaj per lei – con la chitarra aveva anche tentato di metterla in musica, ma ne era uscito un disastro in la minore, come l’aveva ribattezzata lei – e quella poesia in fondo riassumeva in rima tutti i loro sogni più veri, quelli segreti, a cui tenevano così tanto che per pudore ci ridevano sopra.

Il mare di Odessa, i soldi del dottor Marziani – lui  era onesto, ma una bella rapina al suo studio l’avrebbe fatta, magari lasciando una lettera di scuse – il sole e i sassi scuri del Mar Nero, il profumo della patria che a noi fa ridere ma che, si racconta, alcuni, dotati di un particolare potere olfattivo, percepiscono.

E i viaggi all’estero per turismo e non per soldi, i ristoranti che per chi viene da certi paesi sembrano sogni. Eppure stava anche attento al preservativo, perché già bastava il figlio di Larissa – che ormai era tornato dai nonni in Ucraina, vicino a Leopoli – e un altro figlio in quel momento non sarebbe servito a nessuno, avrebbe ucciso con la sua nascita qualunque sogno. Casomai più in là, a Odessa, le disse, e finì che lei si commosse.

Quando quella settimana di insonnia, vodka e cocaina finì – più un sogno che la vita vera – e Larissa scomparve a Oleg si strangolò il cervello. La signorina della Vodafone che parlava di numero inesistente lo irrideva, non sapeva più niente, sapeva solo che le bocche dei pazienti erano mostri che gli si spalancavano davanti agli occhi, come gli incubi che lo divoravano nelle poche ore di sonno, sapeva solo che non avrebbe mai più baciato nessuna donna in vita sua.

Di giorno la cercava dappertutto, ogni domenica andava alla stazione dei pullman alla Garbatella per vedere se stava lì a ricevere o spedire pacchi in Ucraina, chiedeva a tutti, agli autisti, agli amici degli amici, ai conoscenti.

Solo dopo tre mesi di ricerche continue seppe da Julia, l’unica del bar della Garbatella che non aveva le mani rovinate, perché “era una che batteva e riusciva ad evitare i lavori domestici”, così dicevano le donne del posto, seppe da Julia che Larissa si era sposata con un italiano, uno che aveva i soldi.

Abitavano a Casalotti, l’aveva rivelato una zia di Leopoli parente della madrina di battesimo di Larissa. Da quando aveva ottenuto il permesso di soggiorno non si era più fatta vedere. Da nessuno. “La solita storia, altroché solidarietà” aveva concluso Julia. Dovette aspettare un altro mese prima di avere dalla parente di Leopoli l’indirizzo esatto, quello del villino rosa, visto che ogni tanto con Julia si scrivevano.

Quanto tempo si passa ad aspettare e quanto a vivere, si chiedeva Nikolaj, e chissà se l’attesa è una forma di vita oppure no. I dubbi dell’amore frustrato. E alla fine non avrebbe sposato nessuna donna, ucraina, italiana o filippina, cinese, né somala, non era degno di sposare chicchessia, perché non aveva i documenti giusti, né i soldi né il lavoro né la casa, mentre il più merdoso degli italiani poteva sposare qualunque donna e purificarla, innalzarla fino alla dignità del permesso di soggiorno e più in là fino al paradiso della cittadinanza.

Aveva saputo di una ragazzina nata a Roma da genitori ucraini, che era dovuta tornare a Kiev a tredici anni, perché i genitori, dopo quindici anni che vivevano e lavoravano in Italia, non avevano ottenuto il rinnovo del permesso di soggiorno. Questo prima che la guerra rendesse tutto più facile.

Insomma quell’italiano era riuscito a sposare Larissa perché aveva i documenti, come se su quei pezzi di carta fosse certificato il suo valore come uomo e le sue referenze come aspirante marito. Quando si incazzava con la burocrazia italiana Nikolaj diventava così furibondo che dimenticava quanto fossero nazionalisti e burocratici gli ucraini.

All’inizio era sicuro che Cesare fosse un magnaccia e che Larissa usciva solo di notte per andare sui marciapiedi, dove restava pochissimo, pensava, perché era troppo bella per non trovare subito qualcuno che se la caricasse in macchina, ma aveva scoperto presto che invece semplicemente non usciva di casa.

Allora aveva supposto che ricevesse i clienti in casa, sotto il controllo stretto di Cesare e Otello, ma erano bastati pochi giorni per capire che in quel villino non entrava nessuno. La teneva semplicemente chiusa in casa, in prigione. Di nuovo l’immaginò legata al letto, nuda.

Un giorno Nikolaj danneggiò il trigemino di un paziente mentre lavorava alla pulizia dei denti e il dottor Marziani, che già aveva ricevuto segnalazioni dai condomini su certi movimenti notturni di Oleg, se lo levò dai piedi. “Per me eri come un figlio – gli aveva detto – Perché hai tradito la mia fiducia? E adesso guarda che mi hai combinato con quel paziente!”.

Oleg aveva pensato che i figli non si sbattono fuori di casa e che per questi incidenti i dentisti sono coperti da assicurazione e nel peggiore dei casi da avvocati e che sul suo lavoro nero ci aveva guadagnato parecchio, il bravo dottor Marziani, ma non aveva replicato nulla. Non gli importava di nulla, aveva solo voglia di andare in giro per la città, assediare il villino rosa notte e giorno e fare la sua vita. Se ne era andato con un saluto affettuoso. Non c’era nulla da chiedere.

***

Il giorno della liberazione arriva all’improvviso, alle sei meno un quarto di un mattino di novembre, il giorno dei morti, Oleg se lo ricorda bene. Otello ha fatto il suo lavoretto intorno all’isolato e ha finito prima del previsto, così Cesare lo incontra davanti al solito cancello nero. Otello non abbaia, lo guarda appena un attimo, gli annusa le scarpe e subito tira il guinzaglio a Cesare. Anche lui ha fretta di tornare a casa. Cesare guarda Oleg appena un attimo, non è sorpreso neanche un po’ di trovarlo lì, evita il suo sguardo, mentre lui, almeno con gli occhi, vorrebbe distruggerlo.

“Volevi entrare. Entra allora, – gli fa  – Così la facciamo finita con questa storia.”

Dentro la casa fa schifo, non ha niente della truce rispettabilità della facciata esterna.

“Vieni qui in cucina. Ci facciamo un caffè.”

Dopo aver messo sul fornello la macchinetta del caffè prepara una ciotola con della carne nera per Otello e lo conduce in bagno. Poi chiude la porta. Nikolaj non trova il fiato per parlare. In cucina Cesare accende la luce al neon che si confonde con il colore livido dell’alba, una penombra funebre che offende la retina e la sua testa torturata dall’insonnia.

Il caffè fischia e comincia a profumare, ma Nikolaj non riesce ancora a parlare. È inutile chiedere dov’è Larissa. La casa è vuota, si capisce dal disordine e da tanti altri particolari. Lì dentro non c’è niente che faccia pensare a una donna.

Bevono il caffè, forte, amaro, la polvere è stata troppo schiacciata e si è inacidito. Cesare beve un sorso e posa la tazzina.

Larissa è morta. Da tre mesi. Aveva un cancro alla gola, già da quando stava in Ucraina, ma se ne è accorta solo qui. E non voleva vedere nessuno dei suoi. Tutti infami, diceva. Peggio degli italiani. – Si accende una sigaretta, poi la offre anche a Oleg. Marlboro rosse, con quel bel triangolino bianco irresistibile – Quando tu telefonavi e venivi a cercarla stava già molto male. Poi l’ho portata al regina Elena, ma è durata solo due settimane.

Volevo che morisse qui, da me, ma non ce l’abbiamo fatta. E io non avevo voglia di dire che era morta, né a te né a nessuno. Perché per me è viva. Ci parlo ancora adesso con lei, qui dentro ci siamo solo io, lei e Otello. Qua in cucina preparava sempre quelle minestre rosse e quel dolce, come diavolo si chiama, Varecchina o Varenicca, non mi ricordo.”

“Vareniki – rompe il silenzio Oleg – Come li faceva? Col formaggio salato oppure dolci, con le ciliegie?”

“Dolci – fa Cesare – Mi piacevano quelli con la ricotta dolce.”

“Sono molto buoni quelli con le ciliegie. Non te li ha mai fatti?”

“No”

“Altrimenti poteva anche prepararteli con la carne. Da noi si dice “Succeda quel che succeda, basta che ci sono i Vareniki. Io li so cucinare.”

“Va bè. Lasciamo stare. Tu sei il primo che entra qui da più di un anno, a parte il fratello di mio padre che tanto non capisce più niente, non si accorgeva nemmeno di Larissa, non sa nemmeno se è vivo o morto lui stesso. Adesso non me ne frega niente di sapere chi sei, cosa facevi con Larissa e che cosa volevi da lei. Adesso voglio soltanto che ti levi dai coglioni. Non mi va più di essere spiato. Oppure diventi amico mio e la pianti di guardarmi in quel modo. Se vuoi, ti trovo lavoro. Per me non è un problema” e tossisce in profondità, da vecchio fumatore.

Occhiaie gonfie e nere sul viso carnoso e sbilenco, come il corpo da vecchio calciatore. Sul cranio pelato, sotto i tre capelli bianchi, piccole ferite, come succede a chi si gratta spesso la testa. Eccoli lì, pensa Nikolaj, due assassini di una donna fantasma che vorrebbero uccidersi tra di loro ma vorrebbero anche consolarsi a vicenda.

Sopra un lungo mobile di legno chiaro una grande foto a colori incorniciata di una giovane donna castana, gli occhi chiari sembrano verdi e il viso tondo, paffuto, la fa sembrare una ragazzina. Ma lo sguardo è grave, dietro il sorriso dolce a bocca chiusa.

“Chi è?” fa Nikolaj indicando la fotografia.

Improvvisamente Cesare lo guarda in tralice, spegne lentamente la sigaretta dentro la tazzina del caffè, il suo volto diventa rosso e si gonfia fino a trasformarsi completamente. Si alza lentamente dalla sedia e afferra Oleg per il bavero della giacca. Saltano due bottoni.

“Chi sei tu, stronzo? Che cazzo sei venuto a fare in casa mia?” urla.

A Nikolaj tremano le gambe, sente, capisce che non c’è niente da fare, che quello non ragiona e che può ammazzarlo in un attimo. Otello dal bagno comincia ad abbaiare, a ringhiare, gratta con le unghie contro la porta.

Nikolaj non capisce cosa sta succedendo, si sforza di guardare in faccia il mostro e cerca le parole ma in italiano non gli vengono quelle giuste. Non gliene frega niente di morire, ma la paura è lì, come se fosse legato alla vita mani e piedi e la amasse ancora disperatamente, come quando aveva vent’anni. Otello comincia a scagliarsi contro la porta e i suoi assalti  rimbombano per tutta la casa.

“Quella non è Larissa” trova appena la forza di dire. Ma la faccia di Cesare si fa ancora più cupa, fino al viola, e gli alita in faccia il suo fiato puzzolente di caffè e denti non lavati.

“E chi cazzo è, allora, eh? Me lo dici tu chi è?” e comincia a scuoterlo e a spostarlo verso la parete.

“Quella non è la mia Larissa.” riesce alla fine a trovare le parole giuste.

Lentamente la faccia di Cesare sbianca, chiude gli occhi e respira lentamente, in profondità, come se si sentisse male. Con uno spintone butta Nikolaj sulla sedia. Poi si siede anche lui e si prende la testa tra le mani. Si tormenta le ferite sul cranio con le dita nervose, stranamente sottili. La testa china, quasi appoggiata sul ripiano del tavolo. Nikolaj ripete: “Quella non è la mia Larissa.”

Cesare sospira. “Allora levati dai coglioni – dice senza alzare lo sguardo – I poveracci come te non mi piace ammazzarli di botte. Perciò levati dai coglioni, subito. Dimentica di avermi mai visto, di essere mai entrato qui.”

Nikolaj si alza, ha ancora in mano la sigaretta accesa, tira un ultimo boccata e poi la spegne nella tazzina da caffè, senza pensarci. Cesare ha ancora la testa china sul tavolo. Esce senza dire una parola. Fuori lo accoglie la musica dell’alba avvolta nell’umidità, un filo di nebbia all’altezza dei primi piani dei palazzi di Casalotti, il silenzio fasullo del mattino appena incrinato da un motorino o da un camion.

Si era fatta dare cento euro quella troia di Julia con le mani ben curate per dargli l’indirizzo di Larissa, ma Nikolaj non aveva nessuna voglia, nessuna forza, nessuno scopo per vendicarsi di nessuno. Ognuno ha la sua Larissa, pensò, le sue tracce si erano incrociate con altre, confuse, disperse, anche il ricordo di lei cominciava a sfilacciarsi e si mise a passeggiare lungo le strade senza marciapiedi tra la campagna e i caseggiati di periferia.

Quella non era la sua Larissa, la sua aveva gli occhi ridenti, i lineamenti un po’ più tartari, un viso meno da bambina, i capelli più biondi, eppure non era veramente diversa. Non sapeva spiegarsi bene questa sensazione, sapeva solo che non era lei, però se ci pensava davvero bene, in profondità, non poteva neanche essere totalmente sicuro che non fosse lei.

Vagò per molti chilometri prima di salire sul quarantasei che lo portava sulla Via Boccea, verso il centro. E scese ancora giù, oltre San Pietro, salì su un autobus a caso, senza guardare il numero e senza biglietto, finchè si trovò al Foro Italico, a ridosso di Piazza Mancini.

La pioggia dei giorni passati aveva gonfiato il fiume, le strade del Lungotevere erano coperte di foglie brune e lunghe strisce di fango. Scivolò due volte senza cadere, la terza cadde e si fece male all’anca. Allora decise di scendere i gradini che conducevano sotto il grande ponte che porta alla stadio, lì sotto gli era capitato di dormire già altre volte e non si era trovato male.

Quel giorno era davvero umido, il lastricato e anche le pareti imbiancate da poco all’interno del ponte erano spalmate di fango fresco, le acque erano risalite su per i gradini e poi si erano ritirate, quasi un’inondazione. Ma lui aveva sonno. Doveva soltanto andare un po’ in giro e cercarsi un po’ di stracci e dei cartoni per costruirsi il rifugio. Erano le nove, ma con quel cielo sembrava tutto ancora immerso nella penombra dell’alba.

***

Il lamento veniva dall’angolo in basso, dietro la parete del ponte, quasi dall’acqua. Vide Mbacke seduto sui lastroni infangati tra i cespugli sopra un mucchio di teli neri di plastica e si avvicinò. Guardava davanti a sé, verso l’altra riva, e teneva in braccio un fagotto scuro. Sembrava un corpo umano con la testa riversa e Nikolaj  pensò subito a una donna affogata ripescata del fiume. Mbacke parlava da solo, cantava, piangeva, forse faceva tutte e tre le cose insieme.

Nikolaj si avvicinò e si sedette in terra accanto a lui. Guardò quel corpo inerte, si avvicinò, guardò meglio e capì che era solo un cappotto, un cappotto scuro. Anzi, un montgomery dal cappuccio molto largo e pesante, fradicio d’acqua.

“Me l’ha portata il fiume. L’amavo, l’avevo conosciuta quando lavoravo al circo. L’avevo vista da lontano, dalle strade che stanno in mezzo tra il circo e la jungla, ma non potevo restare lì a lungo, lo sapevo. O di qua o di là, arriva sempre qualcuno che decide per te. Era tedesca, bianca e bionda come una dea, il suo cuore era candido e trasparente, mi sembrava di vederlo mentre volava sui trapezi. Si era innamorata di me perché ero il più alto, il più forte, il più bello, il più generoso e il più bravo di tutto il grande circo.

Loro erano tutti bravi cavalieri, lo so, loro sono i discendenti di Re Artù, hanno scoperto il Santo Graal, ma a me è bastato chiedere di fare un giro sulla giostra colorata. Ero entrato di nascosto sotto il tendone e avevo detto: “Perché voi si e io no?” e così ero diventato famoso.

Avevano capito. Perché senza di me il circo era finito, l’unico nero nel grande circo dei bianchi, io e lei eravamo la grande attrazione. Poi mi hanno licenziato – essere cacciato è il mio destino – e adesso me l’ha restituita lo spirito del fiume. E quando anch’io, quando il fiume mi chiamerà, annegherò li dentro e le nostre anime torneranno unite.”

Mbacke non aveva mai lavorato in nessun circo, Nikolaj lo sapeva. Nell’ambiente Caritas lo conoscevano in tanti. Chissà come dal Tevere era affiorato quel cappotto proprio il giorno dei morti ed era finito in braccio a lui e la sua mente aveva cominciato a lavorare.

Da quando la comunità senegalese lo aveva espulso perché aveva rubato un intero carico di CD per rivenderlo in Francia – lui diceva che lo avevano espulso perché si rifiutava di convertirsi all’Islam e forse erano vere entrambe le storie – da allora viveva sulla sponda del Tevere e chissà come non si ammalava.

Quasi ogni giorno, in qualunque stagione, entrava nel fiume per purificarsi oppure per punirsi, secondo i precetti della sua religione tradizionale. Quando si ammalava guariva subito. Eseguiva riti propiziatori, una volta lo vide torturare e poi uccidere un enorme ratto perché doveva sacrificare una bestia, possibilmente pericolosa, allo spirito del fiume.

Il Tevere era il suo dio e il suo altare. Era davvero alto, grande, forte. Teneva in grembo quel cappotto con la tenerezza di una madre e cantava qualcosa e borbottava nella sua lingua. Aveva una luce fissa e calma negli occhi. Era schizofrenico. Ne aveva visti tanti in Ucraina, ma lui era uno schizofrenico senegalese che viveva a Roma e questo rendeva le cose ancora più difficili. Anche per Nikolaj.

Perché somigliava molto a un cappotto di Larissa, un cappotto che lui ricordava molto bene. Ma quanti cappotti come quello potevano esserci in giro, a pensarci bene? Rischiava di diventare matto pure lui. Che senso aveva parlarne con Mbacke? Rimase seduto accanto a lui. Fango, nuvole, anatre, l’aria tersa ripulita dal vento di tempesta. Il resto è un deserto vuoto, anche il fiume è gonfio ma silenzioso, quasi non si avverte il passaggio degli autobus sopra le loro teste. Ogni tanto un gabbiano ride.

Presto Mbacke gli avrebbe raccontato che quella donna era sua sorella, che sembrava bianca perché l’acqua del fiume l’aveva scolorita, oppure che era l’insegnante di italiano di cui si era innamorato qualche tempo fa, per quelle poche settimane che aveva frequentato un corso di lingua, o tante altre di quelle storie che già altre volte aveva sentito da lui, ogni volta che andava a dormire sotto il ponte dello stadio.

Mbacke era stimato anche perché una volta aveva messo in fuga tre laziali imbecilli che avevano tentato di picchiarlo con le spranghe e uno di loro era pure finito in ospedale. Era stato prescelto dagli dei, diceva di se stesso, e questo significa che poi gli dei ti rendono la vita difficile, perché se lo contendevano tra di loro e lo reclamavano in cielo e gli uomini lo ammiravano ma lo temevano. Soprattutto non lo capivano. Solo lo spirito del fiume gli era amico, e con lui poteva parlare, capirsi. Quello era il suo destino.

Nikolaj aveva sentito tante volte questa storia, anche se ogni volta inventava o ricordava nuove avventure o aneddoti. Era fantasioso e ripetitivo, proprio come certi  schizofrenici. Chissà perché toccava proprio a Mbacke trovarsi lì, per accogliere quel cappotto così simile a quello di Larissa,  trascinato dallo spirito del fiume.

Il cappotto con il cappuccio largo di Larissa – è incredibile quanto si possano amare i vestiti di una persona amata – scomparsa chissà dove per tutti quei mesi e poi finita suicida. Succede a tanti come loro. Indizi impressionanti, coincidenze, somiglianze e dopo tanti dubbi, il nulla.

Così come non poteva escludere del tutto che la donna della fotografia a casa di Cesare non fosse, a ben vedere, la sua Larissa. Tante volte le foto ingannano, poteva essere ingrassata, le donne si tingono i capelli. Ma non avrebbe mai potuto spiegarlo a Cesare né poteva dirlo a Mbacke. Forse davvero non aveva nessuna importanza. E non solo perché era comunque scomparsa, anzi, quasi certamente morta. Non aveva importanza e basta.

Oleg aveva sonno, sempre di più. Mbacke continuava a cantare qualcosa. Si sdraiò lì, accanto a lui. E il giorno dei morti la cosa migliore da farsi è una bella dormita. Perché ciascuno è libero di inventarsi l’autoinganno che più gli è congeniale.

© Sergio Kraisky
(dicembre 2023- gennaio 2024

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

Periscopio è  proprietà di un azionariato diffuso e partecipato, garanzia di una gestitone collettiva e democratica del quotidiano. Si finanzia, quindi vive, grazie ai liberi contributi dei suoi lettori amici e sostenitori. Accetta e ospita sponsor ed inserzionisti solo socialmente, eticamente e culturalmente meritevoli.

Nato quasi otto anni fa con il nome Ferraraitalia già con una vocazione glocal, oggi il quotidiano è diventato: Periscopio naviga già in mare aperto, rivolgendosi a un pubblico nazionale e non solo. Non ci dimentichiamo però di Ferrara, la città che ospita la redazione e dove ogni giorno si fabbrica il giornale. e Ferraraitalia continua a vivere dentro Periscopio all’interno di una sezione speciale, una parte importante del tutto. 
Oggi Periscopio ha oltre 320.000 lettori, ma vogliamo crescere e farsi conoscere. Dipenderà da chi lo scrive ma soprattutto da chi lo legge e lo condivide con chi ancora non lo conosce. Per una volta, stare nella stessa barca può essere una avventura affascinante.  Buona navigazione a tutti.

Tutti i contenuti di Periscopio, salvo espressa indicazione, sono free. Possono essere liberamente stampati, diffusi e ripubblicati, indicando fonte, autore e data di pubblicazione su questo quotidiano.

Francesco Monini
direttore responsabile


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it