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Da qualche tempo mia nipote Gioia, che ha appena compiuto 5 anni, usa l’espressione “vogliamo fare?” per indicare il coinvolgimento di chi le sta di fronte nell’obiettivo che le interessa in quel momento. Da principio ho pensato che l’espressione fosse l’indicatore di una sua gentilezza. Poi mi sono interrogata su come mai questa espressione fosse divenuta per lei un intercalare così abituale e ho capito che si tratta di una modalità diffusa con la quale educatrici e adulti si rivolgono oggi ai bambini. Questa locuzione mi è sembrata emblematica dei cambiamenti dei modelli di autorità, così ho provato a ripercorrere i molti diversi modi con cui, nell’ultimo mezzo secolo, gli adulti hanno impartito ordini o indicazioni ai bambini rispetto a un compito da svolgere.

Mi è venuta agli occhi la figura di mio nonno, burbero e taciturno. Per lui “Fai!” era una frase verbale compiuta, intrinsecamente motivata dal verbo imperativo, certo più che sufficiente per impartire un ordine. Credo che sia stato questo il messaggio ricevuto da mio padre nella sua infanzia, un messaggio cessato probabilmente nel suo ingresso alla sua età adulta, perché a quel tempo i genitori smettevano di dare consigli quando i figli superavano la soglia della maturità.
Ho pensato che verso di me, da parte dei miei genitori, l’indicazione si era trasformata in “Devi fare”, segnando con ciò un radicale passaggio verso un principio etico. Con l’indicativo “devi” l’ordine resta, ma si sposta da un piano naturale e a-problematico a un piano di dovere sorretto da riferimenti di valore. Il riferimento al dovere non lascia a chi riceve un’indicazione margini di discussione, in quanto indica un contesto normativo a cui non è possibile sottrarsi.
A questo ordine indiscusso la mia generazione ha inteso ribellarsi aprendo le porte, in modi spesso confusi e pasticciati, al principio della responsabilità. Il “Dovresti fare” che precedeva le indicazioni impartite ai figli della generazione post sessantottina segnava questo tentativo di responsabilizzazione, assumeva il principio ‘sacro’ della scelta, aprendo su troppi piani la possibilità di scelta a bambini che, per la verità, non potevano essere in grado di sostenerla.
Il passaggio alla fase seguente diveniva fin troppo facile: lo slittamento verso una libertà di scelta spesso troppo pesante da assumere per i nostri figli. IL “Vuoi fare per favore?”, sintetizzava l’esasperazione di una generazione che aveva sperato che la libertà si associasse a una scelta razionale e che era meravigliata che tutta la libertà del mondo non conducesse alla scelta migliore.

Ma la strada era segnata e non aveva ritorno, il passaggio successivo tentava una persuasione sul piano della gratificazione, sperando che questo rappresentasse una contropartita per un dovere che non poteva più essere imposto: “Ti piacerebbe fare?”, così le madri hanno gestito le proposte di risarcimento del tempo mancato, di fronte a un bambino sovrano. Come stabilire che cosa fosse meglio per lui o per lei, se non assumendo la sua assoluta soggettività? Il bambino sovrano era e resta il protagonista di un mercato che a esso dedica una crescente varietà di beni, la maggior parte connessi al divertimento e alle numerose feste che costellano il calendario: dai compleanni dei compagni di classe ad Halloween.
Ora il passaggio ulteriore al “Vogliamo fare?” esalta l’approccio motivazionale, un approccio che punta al coinvolgimento, ovviamente in nome della libertà e della contropartita di gratificazione implicita nella proposta. Una piccola micro-espressione populista, quella rivolta al bambino, sovrano come il popolo, che non può che unirsi agli altri in una ovazione comune di felicità. Il ‘vogliamo’ riflette il ‘noi’ indistinto di una responsabilità comune che, più o meno come in politica, mette tutti sulla stessa linea orizzontale del consenso.
L’adulto coach e assistente, coinvolto in un ingaggio permanente con bambini che da soli non sanno più fare nulla, diventa fragile come il leader di un partito, senza autorità e senza consenso. Stimolare è la parola magica del tempo presente, una parola sbagliata perché di stimoli i bambini ne hanno già tanti e, anzi, dovrebbero essere aiutati a prendere un po’ le distanze da questi, per praticare vie di apprendimento più riflessive.
Le mamme intanto si preparano alle chat della scuola elementare che, con l’intento di controllare da ‘perfette clienti’ la qualità del servizio-istruzione, contribuiranno a distruggere la reputazione degli insegnanti, ultimo baluardo di un principio educativo.

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Maura Franchi

È laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del Prodotto Tipico. Tra i temi di ricerca: le dinamiche della scelta, i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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