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Roberto D’Alimonte (Sole 24 Ore 27 settembre 2022) ha definito “l’elezione dei record” quella di domenica 25 settembre.
Mai un distacco così ampio tra vincitori e vinti (da solo FdI prende il totale dell’intero centrosinistra), mai un’affluenza così bassa (63,9 per cento) e, si potrebbe aggiungere, mai una candidata donna a Palazzo Chigi.

Nei record rientrerebbe anche il peggior risultato del centrosinistra dal 1948.

Al di là delle divisioni e delle responsabilità, che continuano a rimpallarsi anche a urne chiuse, si fatica a comprendere quell’ordine sparso nonostante una legge elettorale, pessima fin quanto si vuole, il cui funzionamento, però, il centrodestra, o destracentro, ha capito al volo, nonostante le discordie che pure ci sono anche su quella sponda.

Regole del gioco che portano indietro le lancette della storia ai tempi della Prima Repubblica. Un conto sono le alleanze per vincere le elezioni, un altro quelle per governare il paese dopo la vittoria.

Si rivolterà nella tomba Roberto Ruffilli che predicava il cittadino come arbitro. Ma queste, piaccia o no, sono le regole, con buona pace del fossato che torna ad allargarsi tra cittadini e politica (si trova qui, forse, anche qualche ragione di un astensionismo in crescita).

Se poi si vuole infilare il dito nella piaga, stupisce che a giocare la partita in questo modo sia stato il Pd, quando la legge Rosato è stata praticamente cucinata in casa.

L’impressione, però, è che le ragioni della tattica e della tecnica elettorale riescano a spiegare solo in parte la sconfitta del partito guidato da Enrico Letta, ora traghettatore verso un prossimo congresso nel quale, ha già detto, non si ripresenterà candidato.

Sui motivi di fondo che trattengono il Pd dal prendere il largo nell’elettorato nazionale continuo a ritenere attuale l’analisi di Massimo Cacciari che commentavo su questo giornale [leggi Qui].

Sul piano della strategia del partito, invece, ho trovato tra le più convincenti quella di Paolo Mieli, scritta sul Corsera lo scorso 21 settembre (un risultato, dunque, largamente atteso) e ribadita sul finire della Maratona di Mentana su La7 (26 settembre).

Provo a farne sintesi.

Da una decina d’anni, tra l’altro bruciando segretari e reggenti come fiammiferi (Bersani, Renzi, Martina, Epifani, Orfini, Zingaretti, Letta), la dirigenza del Pd sembra avere sposato la linea politica del senso di responsabilità per affrontare l’emergenza di turno (crisi finanziaria, il debito, una catastrofe, la pandemia, la guerra), ricorrendo alla formula di governo delle larghe intese, senza passare per il voto.

Una strategia che, nel nome dell’interesse del paese anteposto a quello del partito, ha rinunciato a una proposta politica chiara e una leadership, affidandosi al supertecnico di turno per mettere in ordine le cose.

Mano a mano che le emergenze si sono susseguite, ha iniziato a fare breccia il pensiero che oltre all’interesse generale ci fosse anche quello di restare al governo a prescindere dalla legittimazione popolare o, come scrive Mieli, nell’irrilevanza di eventuali insuccessi elettorali.

Se questa lettura è plausibile, appare paradossale che l’intera campagna elettorale del Pd, o quasi, si sia svolta all’insegna dell’argine del Noi vs Loro, del pericolo di una regressione sul piano dei diritti civili e delle libertà democratiche.

Tra l’altro, in questo gioco al massacro, nel costante tentativo di delegittimazione dell’avversario, sembra tuttora lontano quello che D’Alimonte chiama “un punto di equilibrio stabile dopo la destrutturazione del sistema dei partiti della Prima Repubblica”.

Non che motivi di preoccupazione manchino nel campo della destra, si pensi solo all’ultima sortita in ordine di tempo, tra l’altro dalla costola della coalizione che si definisce più liberale, secondo cui Putin sarebbe stato indotto a sostituire la dirigenza al governo ucraino con gente perbene.

Ma nell’affermare di essere il baluardo della democrazia e nello stesso tempo garantirsi l’accesso alle leve di governo a prescindere dal consenso, c’è qualcosa che non torna.

Se le cose stanno così, probabilmente non basterà la liturgia di un congresso per rimettere il treno sui binari, se non c’è la volontà di mettere a nudo un’intera strategia che, è l’impressione, il 25 settembre pare arrivata al capolinea.

Se la discussione si fermasse a rinfacciare alla componente ex-democristiana o a quella ex-comunista i motivi dell’insuccesso nelle urne, significherebbe che questa volontà non c’è e il Pd non vuole essere nemmeno una fusione a freddo.

Solo come spunto di riflessione, fra i potenziali candidati che circolano con insistenza alla successione di Letta, c’è n’è uno che, aldilà del nome, cognome e vicinanza alla tale corrente interna, racconta innanzitutto una biografia politica. Stefano Bonaccini, attuale presidente della Regione Emilia-Romagna, ha dimostrato, per esempio, di avere ben presente il legame tra voto democratico e governo.

In più, è stato in grado di vincere competizioni elettorali anche contro ogni pronostico e sul tema sensibile, a quanto pare anche per la prossima agenda del Pd, dell’ossessiva ricerca di alleanza con il M5S.

Non è questione di appoggiare un candidato da parte di uno, come me, che non sa leggere né scrivere, ma di riflettere sul fatto che la volontà del principale partito della sinistra italiana di mettere davvero a tema un’intera strategia, si misurerà anche dalla candidatura di nomi in grado di esprimere delle traiettorie politiche e, come tali, di aprire la conseguente discussione.

Non, quindi, un semplice avvicendamento.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

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