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Lo scorso 28 febbraio l’Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio emette un comunicato col quale si annuncia che la Santa Sede ha soppresso la Fraternità Sacerdotale Familia Christi.
Il decreto emesso dal prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, cardinale Luis Ladaria Ferrer, è del 13 dicembre 2019 e mette la parola fine a una vicenda iniziata nel 2014, quando l’allora arcivescovo di Ferrara-Comacchio, Luigi Negri, la eresse come Associazione pubblica di fedeli, diventata nel 2016 Società di vita apostolica o Fraternità.
Formata da cinque preti – Riccardo Petroni, Matteo Riboli, Lorenzo Mazzetti di Pietralata, Emanuele Leonardi e Enrico D’Urso (segretario di Negri) – a Familia Christi fu affidata la parrocchia di Santa Maria in Vado e, dal febbraio 2016 la Rettoria del Santuario del Prodigioso Sangue, sempre in città.
Molto articolato è stato il percorso conclusosi con la soppressione.
Lo stesso comunicato dell’arcidiocesi informa che dal 20 al 22 febbraio 2018 si è svolta la visita canonica alla Fraternità, cui si è aggiunta una visita pastorale e successive indagini. Gli esiti sono stati trasmessi alla Pontificia Commissione Ecclesia Dei della Congregazione per la Dottrina della Fede.

Sulla base dei responsi, e di una relazione firmata dal successore di Negri, Giancarlo Perego, il presidente della Congregazione vaticana ha nominato l’1 dicembre 2018 Daniele Libanori (ferrarese, studi in teologia morale, rettore del seminario diocesano negli anni in cui vescovo era Luigi Maverna, diventato gesuita e ora vescovo ausiliare di Roma), Commissario plenipotenziario delegato della Santa Sede sulla Fraternità di Familia Christi.
Tre i compiti di Libanori, si legge in un precedente comunicato della diocesi (3 dicembre 2018): assumere il commissariamento di Familia Christi, verificare la fondatezza dei risultati della visita canonica e determinare, in collaborazione con Ecclesia Dei, eventuali percorsi futuri per la Fraternità sacerdotale.
Al termine della verifica compiuta, lo stesso vescovo ausiliare di Roma, il 20 giugno 2019 – dice il comunicato diocesano del 28 febbraio – “avendo verificato le difficoltà oggettive, ha disposto dal 1 luglio 2019 la chiusura dello studentato e del noviziato”, entrambi nel complesso dei Gesuati in via Madama. Nel frattempo, dal 6 giugno 2019 la Congregazione delle Cause dei Santi ha deciso per don Riccardo Petroni (il parroco) la revoca dell’ufficio di postulatore per le cause dei santi.
Il decreto di soppressione dell’ex Sant’Uffizio, confermato dal pontefice il 6 febbraio scorso, è quindi l’ultimo passo di un procedimento in piedi da un paio d’anni, iniziato dopo pochi mesi dall’ingresso a Ferrara del nuovo arcivescovo Perego (3 giugno 2017).

A qualcuno Oltretevere deve essere ‘andata giù la catena’, se la gravità del provvedimento si è spinta fino all’applicazione del canone 701 del Codice di diritto canonico, cioè la proibizione per i cinque preti di celebrare messa, confessioni e matrimoni. Salvo che un vescovo, dopo un conveniente periodo di prova (canone 693), non decida di riammetterli all‘esercizio degli ordini sacri.
Fin qui, più o meno, la cronaca, o almeno quello che è dato sapere, visto che le fasi informative, compresa la relazione di Perego, sono coperte da riservatezza. Eppure qualcos’altro si può comprendere della vicenda.
Per prima cosa, l’ex arcivescovo Negri, come principale sponsor di Familia Christi si può dire che esca ammaccato da questa storia. Non è dato sapere quanto sia stato convinto sostenitore, o se abbia prestato il fianco con leggerezza a un’iniziativa ascrivibile in pieno al campo del tradizionalismo cattolico. Di sicuro la scelta si è dimostrata un disastro su tutta la linea.
Nel comunicato della diocesi del febbraio scorso, poi, le parole meditate dell’arcivescovo Perego, a commento dell’articolato iter, meritano attenzione. Da una parte, esprime la preghiera perché non vengano mai meno i “doni carismatici per la vita e la missione della Chiesa”, dall’altra richiama l’attenzione sui “criteri per il loro discernimento”. Come dire: ben venga la diversità nei modi di essere chiesa, ma attenzione a distinguere fra doni e altro.
Già qui, chi ha orecchi per intendere, intenda.

Ma quali sono questi criteri? Ora Perego cala l’asso. Sono esattamente quelli richiamati dallo stesso ex Sant’Uffizio, fra cui: il primato della vocazione di ogni cristiano alla santità, la testimonianza di comunione con tutta la Chiesa e il riconoscimento e la stima verso tutti gli altri carismi. Grattando la superficie felpata del linguaggio, si possono intuire alcuni motivi che hanno portato a usare la mano pesante.
Il ripristino del latino nella celebrazione della messa è avvenuta legittimamente grazie al motu proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007, con il quale papa Benedetto XVI riconobbe la cosiddetta messa di san Pio V come “forma straordinaria” della liturgia latina. Certamente, nel caso ferrarese, la messa in latino è stata scrupolosamente celebrata in “forma straordinaria”, ma lo spazio dilatato tra la zona dell’altare e i banchi dei fedeli nella vita liturgica e una serie di misure rigidamente introdotte, hanno di fatto solcato in Santa Maria in Vado un’ordinaria distanza tra l’area sacra, nella quale si compiono i santi misteri, e quella dei fedeli che vi assistono. Tra la Chiesa docente e quella discente.
La stessa lettura guidata per alcuni lunedì sera della Sacrosanctum Concilium, ossia la costituzione sulla liturgia approvata dal concilio Vaticano II il 22 ottobre 1963, va ascritta nel tentativo di catechizzarne una recezione funzionale a un’ecclesiologia chiaramente gerarchica. Ricordo personalmente che, in alcuni di quei confronti serali, erano attentamente scelti brani del testo tesi a sottolineare la postura giuridica e gerarchica della Chiesa.

Si sa che i documenti conciliari sono frutto di un equilibrio, spesso sofferto e combattuto, ma è altrettanto assodato che Sacrosanctum Concilium è stata la porta principale d’accesso verso un’ecclesia che ha inteso lasciarsi alle spalle il modello di societas perfecta. Ad esempio, la formula “attiva partecipazione” ricorre nel documento conciliare ben undici volte, esattamente quella partecipazione ai santi misteri che Familia Christi ha riservato al personale gerarchicamente sacro-separato. Per questo motivo, il ripristino del latino (comprensibile solo agli addetti ai lavori), il ritorno del sacerdote spalle ai fedeli e la dilatata separazione-distanza fra clero e laici, sono stati i segni sistematici della volontà di restaurare, anche visibilmente, uno spazio ecclesiale che sottende una linea teologica ben più complessiva e che fa perno su un’idea marmorea della tradizione, senza alcuna prospettiva evolutiva.
Appaiono così più chiari i richiami del vescovo Perego alla vocazione di “ogni cristiano” alla santità e al termine “comunione”, per una Chiesa che, a partire dal Concilio, riscopre le proprie radici di comunità, ben più che una piramide.

Operazioni come quelle di Familia Christi non si limitano, quindi, alla folkloristica riedizione del latino, ma celano in realtà il tentativo di mettere il Concilio Vaticano II sul banco degli imputati, visto da un rinvigorito tradizionalismo come un grande errore, sul crinale dell’eresia.
Rispetto al ‘balzo innanzi’ invocato da papa Roncalli, è una lettura riduzionista, tuttora poderosamente in auge, cui hanno prestato il fianco anche i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, con la loro lettura del Concilio in ‘continuità’ con la tradizione della Chiesa.

 

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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