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Dove non mi hai portata di Maria Grazia Calandrone.

Entro la dozzina dei libri semifinalisti dello Strega ho scelto Dove non mi hai portata di Calandrone, dicevo nell’ultimo articolo, per via del cognome che fa il verso al celebre Calandrino del Boccaccio. Poi per il titolo che si rivolge a un tu e promette un dialogo: saremo almeno in tre, ho pensato, la voce che narra, il suo interlocutore o interlocutrice, e  la lettrice che sarei io.

Così è stato e il dialogo ha accolto altre voci ed è stato fecondo, solo che dalla comicità di Calandrino la lettrice ha dovuto sgombrare il campo.

Perché il libro ricostruisce con rigore la storia di un abbandono, quello che l’autrice ha subito dai genitori biologici quando aveva soltanto otto mesi, nel giugno del 1965, ed è stata deposta su una coperta all’ingresso di Villa Borghese a Roma, nel verde di un prato.

Dove non mi hai portata resta tuttavia un libro equilibrato, pieno di autenticità, in cui la narratrice si mostra grata della vita che ha avuto. Apre un piccolo squarcio alla fine del racconto per nominare i genitori adottivi, Consolazione e Giacomo Calandrone, e li definisce “due giganti” dai quali ha avuto una vita bella, un “ristoro”.

Il resto del libro, tutto il libro è una investigazione implacabile piena di ardore verso la madre biologica, Lucia Galante, e verso il padre biologico Giuseppe Di Pietro, che di Lucia è l’amante.

Documenti scritti, interviste, articoli di giornale, cartelle cliniche e certificati d’archivio si sommano, portando informazioni  il cui totale cresce a ogni pagina: Maria Grazia li ha studiati e ora li descrive, scarta ciò che le sembra incoerente col quadro che si è fatta della storia, cerca conferme tra una fonte e un’altra come in una indagine filologica, di una filologia potrei dire esistenziale.

Ogni pagina è la rielaborazione di una assenza, che viene messa sotto gli occhi dei lettori come a chiederne l’ascolto a ogni momento. Ogni pagina è una parte del prezzo che va pagato per fare i conti con gli inizi di sé, definitivamente.

la cartolina anne berestEccomi di nuovo impigliata in una difficile storia famigliare, penso. Anche qui apprendo vicende di famiglia sofferte e al tempo stesso fortemente identitarie, come quelle che ho appena letto nel  romanzo di Anne Berest, La cartolina.

Solo che qui tutto richiede immedesimazione: l’autrice è nata nel 1964, scrive e vive in questi anni, in questi giorni e si racconta come figlia. Utilizza le parole per tessere il corpo e la mente di sua madre, che in un giorno afoso del giugno 1965 si è gettata nel Tevere insieme al compagno per consentire a lei bambina di essere adottata e di avere una buona vita.

Maria Grazia è tornata sui luoghi in cui la madre è nata e dove ha vissuto le poche fasi della sua esistenza, fino a quella morte a ventinove anni che l’ha inchiodata a una giovinezza senza fine.

Dico subito che la ricostruzione dell’autrice-narratrice-figlia è come una lunga poesia intrisa di amore, una lirica tuttavia lucidissima. L’io narrante  si interroga sulla madre e si dà risposte piene di solidarietà verso di lei, finisce per  comprenderne la scelta esiziale, quando non ha più avuto la linfa che la tenesse in vita. Non un lavoro per sé e per Giuseppe, non un aiuto dalla propria madre: solo il disdoro generale e le perfidie sociali dell’Italia uscita da poco dalla seconda guerra.

Ma andiamo con ordine. Al paese in provincia di Campobasso Lucia è stata costretta dalla famiglia a un matrimonio di convenienza e ha sopportato per anni le percosse e l’insipienza di un marito incapace. Quando ha conosciuto Giuseppe, di molti anni più grande di lei e già a capo di una famiglia, ha conosciuto l’amore: “la magnifica follia che ci fa giganteggiare sopra la nostra vita, che trasloca il nostro piccolo esistere dentro il corpo totale del mondo”.

Ha raccolto le sue poche cose e si è trasferita a casa di Giuseppe, mettendosi contro la legge e contro l’opinione di tutti i paesani.

Siamo nel 1964 e il secondo trasloco è per i due amanti una vera avventura di viaggio, oltre che un fenomeno sociale su vasta scala. Dice Maria Grazia: “Tra Palata e Milano esiste un varco spaziotemporale”, eppure Lucia e Giuseppe lo oltrepassano quando lei è al sesto mese di gravidanza e dopo un viaggio lungo, passando da una corriera all’altra, arrivano nella “Milano dell’immigrazione“, dove “gli emigranti che arrivano da Sud vengono sversati come scorie radioattive in discariche sociali ultraperiferiche, … isole di fango e impalcature, aree non comunicanti col resto del tessuto urbano”, città nella città.

Bastano pochi mesi per consumare il fallimento e prendere atto che, passato il primo boom edilizio che ha dato lavoro a Giuseppe come manovale, lui, Lucia e la piccola Maria Grazia sono senza mezzi di sostentamento.

I due preparano attentamente l’ultimo viaggio a Roma, dove lasceranno la bambina prima di lasciare andare sé stessi nell’acqua del Tevere. L’autrice ricostruisce ogni minuto dei due ultimi giorni di vita per i suoi genitori, il 24 e il 25 giugno 1965. Valuta ogni ipotesi di spiegazione per ognuno degli atti finali che hanno compiuto: l’abbandono di bagagli sotto i portici di piazza Esedra, la lettera spedita all’Unità in cui affidano la loro bambina “alla compassione di tutti”.

Con questo libro Maria Grazia raccoglie l’invito, per sé e per me lettrice che l’ho ascoltata fino a qui e mi accosto alle pagine finali. Sono scossa, devo riconoscerlo.

“Questa mia vita, con il gratuito e a volte immeritato bene che incontra, aderisce ogni giorno alla disperata speranza di Lucia e Giuseppe. Ci vuole un gran coraggio, per sperare. La storia dice che Lucia e Giuseppe sono morti sperando. Il mio bene, se non il proprio. E loro due, mettiamoli tra quelli che hanno vinto l’invincibile solitudine del morire, morendo insieme”.

Nota bibliografica:

  • Maria Grazia Calandrone, Dove non mi hai portata, Einaudi, 2022
  • Anne Berest, La cartolina, Edizioni E/O, 2022

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

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Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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