Un professore non più giovanissimo in una lettera a un giornale locale ricorda le figure strambe, oggetto di curiosità e di popolarità nella Ferrara di un tempo, quando ero bambino e ragazzo e quando lui era giovane studente di lettere. Il professor Francesco Benazzi gestiva una tabaccheria proprio sotto la nostra casa e le frequentazioni erano assidue, visto che l’intera mia famiglia emetteva fumo come una ciminiera. Erano rapporti molto compassati e formali specie da quando anch’io, seguendo la moda di casa, spendevo i miei pochissimi soldarelli in cinque sigarette per volta sapientemente impacchettate in un cilindrino di carta da giornale. Negli anni Cinquanta il consumo di questa carta era copiosissimo. Una carta buona per tutti gli usi: da incartare, da strizzare bagnata per fare le palle che una volta essiccate venivano accese per produrre il fuoco nei camini, nelle stufe economiche, nelle Bechi di terracotta e, naturalmente, per il suo uso principale: sapientemente squadrata in foglietti, appesa al gancio in bagno come carta igienica.
La raccolta della carta era affidata al carrettino dello straccivendolo che al grido di “A ghè al strazar, donn”, “E’ arrivato lo stracciaiolo, donne”, provocava precipitose aperture di porte per procurarsi o vendere un così prezioso materiale. E che fatica strappare alle impietose dita della nonna i giornalini che amavo di più! Dal “Corriere dei piccoli” che ci arrivava dai cugini ricchi la settimana dopo l’uscita, a “Topolino” e a “Hollywood”, che mamma comprava e che per me era la lettura preferita. Con astuzia la nonna si faceva consegnare “Detective Crimen” dalla signora che ci veniva ad aiutare due volte la settimana. Di quotidiani in casa se ne vedevano pochi perché il nonno li leggeva al bar di fronte, dove si recava a prendere il caffè, e la mamma in ufficio. Le cronache locali perciò erano affidate al passa parola e alle chiacchere che s’infittivano tra il mercato del Listone e la Littorina. Così le macchiette che Benazzi ricorda erano emblematiche di un modo di essere.
“Puina”, che in dialetto significa ricotta, era l’appellativo ricorrente della nonna che mi imponeva d’andare in cantina a prendere la legna , i “zucatin”, i pezzi di legno che servivano per alimentare le stufe. Regolarmente tornavo su con tre, massimo quattro pezzi. Ecco allora la frase rituale. “ At g’ha propria i brazz ad puina”: “Hai proprio le braccia di ricotta”. Puina era già diventato la macchietta principale in città e, come ricorda Benazzi, reagiva all’appellativo sfidando tutti a braccio di ferro.
Nella nuova e modesta casa in cui abitammo dopo il bombardamento di Ferrara e che ci costrinse al lasciare il nostro ben più grande appartamento portammo alcuni quadri di pittori locali. Tra questi uno che rappresentava un ragazzotto dal sorriso impudente che sotto un berrettuccio fuma una cicca. In casa si credeva fosse il ritratto di “Tugnin dill cich”, “Tonino delle cicche”, un altro personaggio assai popolare a Ferrara che passava il suo tempo a raccogliere i mozziconi di sigaretta per fumarsele in modo compulsivo. Un’attività che di nascosto era eseguita anche dagli amici di mio fratello che mi lusingavano, io bambinetto un po’ tonto, a raccoglierle per loro con il pretesto di partecipare a una caccia al tesoro. Un indizio per la caccia poteva valere cinque, dieci cicche, ma più ci si avvicinava al traguardo più il numero richiesto cresceva. E la ricompensa? Una bellissima corona di foglie di magnolia che le due o tre ragazzette che osavano aggregarsi al gruppo dei maschi dovevano comporre in quel paradiso che allora era il Parco Pareschi.
Ma l’idolo di tutti noi era Pendenza. Una malformazione del piede, ritorto indietro, lo faceva camminare oscillando come tutti coloro affetti da zoppìa. Pendeva dunque e s’appoggiava o cavalcava una bicicletta, col manubrio da corsa. Ben presto divenne una figura conosciutissima a Ferrara e la sua presenza aveva valore apotropaico quando la Spal giocava. Il suo grido lanciato per strada e diventato famoso era: “Źìo, dàm ‘na zigaréta!”, “Zio, dammi una sigaretta”, diventando così nipote di gran parte degli “umarell”, gli “ometti”, tremendi pensionati o curiosi che sostavano di fronte alla Piazza Trento e Trieste, “Il Listone” per i nativi. Quegli “umarell” erano gli arbitri dei giudizi della e sulla comunità ferrarese. Di tutta questa umanità composita non c’è traccia nelle bassaniane storie ferraresi; qualcosa si rinviene invece in quelle scritte dal cugino del grande scrittore, Gianfranco Rossi, appassionato catalogatore dei nomi più strambi che venivano imposti ai bambini specie delle classi più umili quasi che il nome importante o strano desse una visibilità maggiore a chi lo portava.
Di quel tempo e di quelle macchiette rimane il ricordo, come il profumo di mamma che emana solo nella mente e che rivedo sul tavolo della toilette: “Soir de Paris” si chiamava e la bottiglia era di un intenso blu scuro.
E le macchiette d’oggi? Sono più connotate dal modo di vestire e di parlare, nel segno ormai comune della barba incolta, della sciarpona o della bocca atteggiata a “cul de poule”, in un misto imbarazzante tra la provincia più oscura e la globalizzazione.
Eh sì. Non ci facciamo mancare nulla a “Ferara, stazione di Ferrara”. Ora abbiamo anche il “Malleus maleficarum”, il Noce maledetto, che sembra non risieda più a Benevento, ma tra le dune di Volania e/o dintorni. La simbologia evoca e incrudelisce su cuori trafitti, viscere, invocazioni diaboliche con tanto di preti esorcisti che studiano il fenomeno.
Non bastavano le maledizioni – altro termine legato al mondo dei malefici – provocate dall’incantesimo Carife che ci ha sbocconcellato – o megli sbranato – i risparmi. Non bastavano le maledizioni del Palazzo degli specchi in puro stile horror con anche l’inventore morale che usa filtri legali, mentre in sottofondo la Destra protesta e vuole l’abbattimento totale della costruzione, capeggiata da un leader che riassume nel vestire tutti i vezzi dei politici: codino, barbetta e un sciarpone monumentale da far invidia a Brunetta.
Non è bastata neppure la siccità. Ora alle sette piaghe non d’Egitto, ma di ‘Ferara’, s’aggiunge quella definitiva con viscere, budella, capelli (biondi) inchiodati all’albero. Se non fosse un regresso culturale degno di qualche zona ancora sotto l’influsso dell’animalismo o di qualche exemplum (però senza il morto, anche se il cadavere dello sparato in macchina tutto composto qualche dubbio solleva) di società segrete ci sarebbe da ridere.
In realtà ci turba, eccome! Per l’arretratezza della nostra cultura.
E il pensiero, grato, ritorna alle inoffensive macchiette che ci hanno allietato, anche se in modo inconsapevolmente crudele, in quel coraggioso tempo della ricostruzione, quando una società non ancora sazia s’inventava modelli e recuperi senza per questo rievocare Scoppola, il buffone della Corte Estense, o le complesse coreografie dei carnevali rinascimentali.
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Gianni Venturi
Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
PAESE REALE
di Piermaria Romani
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