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Diario in pubblico. Dal rimbombo alla poesia

Aspettavo con emozione i due concerti che si sono tenuti al Teatro Comunale di Ferrara diretti dal maestro Gatti che, perseguendo un progetto triennale di esecuzione delle sinfonie beethoveniane, avrebbe diretto la Quarta e la Quinta e due giorni dopo la Seconda e la Sesta. Per il teatro ferrarese una convalida della qualità delle scelte e quindi l’importanza del cartellone.

Arriva la sera della prima esecuzione. Indosso la giacchetta di rito e aspetto l’apertura dell’atrio. Attorno tante persone che mi salutano affettuosamente, altre che mi guardano con aria complice come a dire «Io c’ero!», mentre nascondo le emozioni e la preoccupazione di non ricordarmi di qualcuno di loro.

I musicisti prendono posto ed esplode l’incipit della Quarta sinfonia. La memoria si mette in moto e sull’onda della musica si spalancano le porte dei ricordi. Poi, dopo il passeggio dell’intervallo, mentre ostinatamente tengo la mascherina consigliata dal medico tra gli sguardi furbetti di chi irride la misura, si ritorna tutti in sala per ascoltare la Sinfonia forse più famosa del mondo.

Gatti ne dà un’esecuzione foscoliana, quasi gridata, mentre vorticosamente la memoria mi trasporta a Bellosguardo, a Firenze, quando, dalla finestra della mia camera, osservavo il rifugio foscoliano e immaginavo il fulvo poeta mentre declama impetuoso l’inno

«- Te beata, gridai, per le felici
aure pregne di vita, e pe’ lavacri
che da’ suoi gioghi a te versa Apennino!
Lieta dell’aer tua veste la Luna
di luce limpidissima i tuoi colli
per vendemmia festanti, e le convalli
popolate di case e d’oliveti
mille di fiori al ciel mandano incensi»

Così, a mio avviso, nella esecuzione del Maestro Gatti, la Quinta assume toni decisamente foscoliani e i toni -per proseguire il parallelo con la letteratura – più leopardiani o manzoniani rimangono un sussurro.

La domenica pomeriggio seduto in platea tra amici conosciuti o meno, dopo l’intervallo che mi produce ancora dubbi e perplessità su chi salutare o chi riconoscere o meno, si apre il palco di proscenio ed entrano due ragazzi con casco in testa sui dieci anni accompagnati da un’affascinante signora che tiene in braccio un pupo di due-tre anni.

Probabilmente parenti dei musicisti. Appena le prime note della Sesta si diffondono, il pupo comincia a balbettare e a tendere le mani al padre che avrà riconosciuto tra gli orchestrali. Una scena di una dolcezza straordinaria. Tutta la fisicità di chi riesce a trasformare corpi, fiati, capelli e piedi in un sogno perfetto, che è la vera conoscenza, si trasferiscono in quel gesto e dagli occhi non più abituati mi scendono le lacrime.

Il ritorno alla realtà si rivela però di una bruschezza inaudita. Mentre le ultime note, quasi sospirate, stanno per finire, un improvviso bisogno mi scuote. Ah! Come siamo ‘fragili’.

Corro spostando i vicini di posto mentre esultano. Mi precipito fuori ma – hélas! – il bagno è chiuso. Trasvolo gli spettatori uscenti e mi precipito quasi in agonia nell’albergo dei miei amici. Mi guardano perplessi, indicano il bagno e mi chiedono se voglio un aperitivo.

No grazie e rifiuto a malincuore. Poi mestamente m’avvio a casa accolto trionfalmente dai rimbombi della costruzione del garage e dalle urla ormai consuete di chi vi lavora dentro.

Un bel contrappasso!

Ma finiranno mai questi lavori? Boh! Se non lo sanno loro. Se fossi nelle macchine comincerei a preoccuparmi.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

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