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“VAI A QUEL PAESE” e tanti altri modi di dire

“VAI A QUEL PAESE” e tanti altri modi di dire

Mandare a quel paese”, “Stare con le mani in mano”, “Pietro torna indietro” … sono alcuni modi di dire comuni e molto usati.

È capitato a ciascuno di noi di utilizzarli. Ad esempio, “Vai a quel paese”, spesso lo usiamo in modo silente, mentre ascoltiamo discorsi che non ci piacciono o vediamo comportamenti scorretti. “Vai a quel paese” non è solo un modo di dire, è anche un modo di pensare che rappresenta e riassume bene quello che la nostra presenza in contesti conflittuali ci porta a desiderare e precede spesso comportamenti di allontanamento.

Ma cos’è un modo di dire e perché si usa così di frequente? Con modo di dire o, più tecnicamente, locuzione o espressione idiomatica si indica generalmente un’espressione convenzionale, caratterizzata dall’abbinamento di un significante fisso (non modificabile) a un significato non composizionale, cioè non prevedibile a partire dai significati dei suoi componenti.

Espressioni come “essere al verde”, “essere in gamba”, “prendere un abbaglio”, “tirare le cuoia” non significherebbero nulla se considerate solo come somma dei significati dei loro componenti. I modi di dire, o espressioni idiomatiche, sono un insieme di parole il cui significato non è interpretabile letteralmente, ma deve essere invece considerato in senso figurato. Quando, per esempio, diciamo a qualcuno di “togliersi dai piedi”, non stiamo chiedendo a una persona di spostarsi dai nostri piedi, ma piuttosto di andarsene e lasciarci in pace.

I modi di dire italiani sono tantissimi. Alcuni hanno radici bibliche, altri vengono dalla letteratura, gran parte di essi hanno invece un’origine popolare che racconta un pezzetto della nostra storia. È questo il principale motivo per cui ci piacciono così tanto. All’interno di una conversazione le espressioni idiomatiche aggiungono valore a quello che si sta dicendo, visto che ogni modo di dire aggiunge una particolare sfumatura alla conversazione. Ricordiamone alcuni:

Stare con le mani in mano” – L’espressione si usa nei confronti di una persona che non sta lavorando mentre tutti quelli attorno a lui si danno da fare.

Non ci piove” – Questo modo di dire di origine popolare, come la maggior parte delle espressioni che coinvolgono fenomeni atmosferici, descrive l’idea di sicurezza e ineluttabilità di ciò che viene espresso. Se “non ci piove”, vuol dire che ci si trova in un posto protetto e irraggiungibile da qualsiasi dubbio.

Mandare a quel paese” – Gli insulti hanno spesso delle origini misteriose che li rendono curiosi. In italiano, per esempio, quando qualcuno ci ha fatto esasperare, o ci ha fatto un torto, lo mandiamo a quel paese. Ma quale paese? Nessuno lo sa, ma c’è andata sicuramente molta gente.

Piove sul bagnato” – Questo modo di dire esprime tutta l’indignazione che si prova quando succede qualcosa di veramente ingiusto a chi non se lo merita. Se, ad esempio, un riccone vince la lotteria oppure una donna che è appena stata lasciata dal fidanzato perde anche la borsa … ecco, in quei casi “piove proprio sul bagnato”.

Acqua in bocca” – La leggenda narra che una donna molto devota, ma allo stesso tempo particolarmente pettegola, avesse chiesto aiuto al suo confessore. “Che cosa devo fare” chiedeva “per non sparlare più della gente e smetterla di commettere questo peccato?” Il sacerdote, molto saggio, le suggerì un liquido miracoloso che, a suo dire, avrebbe frenato il desiderio di sparlare e rivelare i segreti altrui. “Ne prenda alcune gocce e le tenga in bocca” le disse “vedrà che è miracoloso!”

Avere un diavolo per capello” – Questa espressione descrive una persona furiosa. Non si tratta semplicemente di essere così arrabbiati da temere di essere posseduti dal demonio, non si tratta nemmeno di avere pensieri maligni per le persone che ci disturbano. La situazione è decisamente più problematica. Qui, di satanassi che turbano la mente ce ne sono a migliaia e sono lì a saltellare sulla testa e a tirare i capelli furiosamente.

Un altro aspetto molto curioso delle espressioni idiomatiche è che lo stesso concetto può essere espresso in maniera molto diversa da lingua a lingua: in italiano, per esempio, diciamo “volere la botte piena e la moglie ubriaca”, quando intendiamo che qualcuno sta esagerando con le pretese o che vuole avere due cose allo stesso momento che non si possono avere assieme.

Gli inglesi dicono “have your cake and eat it too” (avere la torta e mangiarsela), i tedeschi dicono “du kannst nicht auf zwei Hochzeiten gleichzeitig tanzen” (non si può ballare contemporaneamente a due matrimoni”), gli spagnoli “no se puede estar en misa y repicando” (non si può assistere alla messa e suonare le campane), mentre i francesi dicono “vouloir le beurre et l’argent du beurre” (volere il burro e i soldi del burro).

La particolare coesione interna delle espressioni idiomatiche consente flessibilità lessicale e sintattica che avviene principalmente con l’inserimento o la sostituzione di un termine oppure con variazioni sintattiche. A volte è possibile, ad esempio, l’inserimento all’interno della frase di avverbi o aggettivi.

È possibile dire “Francesca si è tolta un grande peso dallo stomaco”, mentre nell’espressione “Tirare la pesante carretta” l’aggettivo pesante priverebbe la frase della sua idiomaticità (Cacciari 1989). Allo stesso modo l’espressione “fare quattro passi” consente la variazione “fare due passi”, ma la sostituzione di qualsiasi altro numero al posto di due o quattro farebbe perdere il significato idiomatico alla frase. L’espressione “mettere le carte in tavola” consente la forma passiva (le carte sono state messe in tavola), mentre altre espressioni completamente fisse non lo consentono.

Esistono dunque espressioni idiomatiche assolutamente congelate, che non accettano alcun tipo di modificazione.  Il grado di immodificabilità e di cristallizzazione di un’espressione idiomatica sarebbe, inoltre, da mettere in relazione con il tempo di conservazione di tale espressione nella lingua. Quando una nuova espressione ne entra a far parte essa possiede, secondo Cutler (1982), una certa flessibilità sintattica, che tende a scomparire con il tempo, rendendo l’espressione idiomatica sempre più cristallizzata. [vedi anche:Qui ]

Davvero curiosa la storia delle espressioni idiomatiche che rappresentano bene un pezzo della nostra storia. Sono un libro aperto dal quale si può imparare a conoscere il nostro passato e che ci danno indicazioni sostanziali su come vivevano e su cosa pensavano i nostri predecessori, le persone che hanno vissuto prima di noi, i nostri nonni e i nonni dei nonni.

Mi sembra importante, aldilà dello studio tecnico e sistematico della lingua che lasciamo ai linguisti e ai glottologi, la consapevolezza che i modi di dire non sono affatto banalità ma che di fatto sono elementi essenziali del nostro modo di comunicare.

È proprio attraverso l’uso del linguaggio e la sua condivisione che gli esseri umani costruiscono una idea di mondo e la trasmettono alle generazioni future. È attraverso la condivisione del linguaggio che ci riconosciamo come comunità d’intenti e disconosciamo chi non la condivide. È attraverso il linguaggio che avvengono alcuni dei più importanti processi di socializzazione, è attraverso il suo uso che le attività scolastiche fondano la loro propedeuticità e il loro forte valore pedagogico.

Credo che tutto questo faccia molto riflettere anche sull’uso che ognuno di noi fa ogni giorno del linguaggio, ogni parola che usiamo ha un suo valore, un significato che è dato in parte dal suo potere cristallizzato e in parte dal contesto in cui viene usata. Ogni parola che usiamo nei confronti delle nuove generazioni contribuirà alla costruzione della loro idea di mondo. Trasmettere contenuti distruttivi attraverso il linguaggio è una responsabilità enorme, perché instillerà in chi sta imparando una cornice sociolinguistica che poi sarà quasi impossibile da sradicare.

La lingua tenta di descrivere la realtà e si trasforma rapidamente come il contesto temporale in cui viviamo. La parola racconta qualcosa di noi, descrive oltre al mondo di provenienza e appartenenza, anche la personalità e l’identità di chi la usa. Per questo una maggiore attenzione al linguaggio che adoperiamo consente di comprendere meglio l’altro e di instaurare relazioni e “conversazioni” consapevoli.

Il linguaggio non è neutrale, non può essere libero da una visione concettuale. Ciascuna concezione ideologica contiene una visione della realtà fisica e sociale preferita. Ogni concezione della realtà prescrive una visione di cosa le persone vedono e del modo in cui lo definiscono e lo valutano. Sapir e Whorf (1937) sostengono che noi sentiamo, vediamo e maturiamo esperienze nei modi che sono prevedibili a partire dalle abitudini linguistiche della comunità a cui apparteniamo, le quali ci predispongono a certe scelte interpretative. Il modo in cui le persone denominano una situazione influenzerà il loro comportamento in quella stessa situazione.

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Catina Balotta

Sociologa e valutatrice indipendente. Si occupa di politiche di welfare con una particolare attenzione al tema delle Pari Opportunità. Ha lavorato per alcuni dei più importanti enti pubblici italiani.

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PAESE REALE
di Piermaria Romani

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)