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Io abito in un paese piccolo, attraversato da un fiume, nella bassa bresciana martoriata dal virus.  Sono cresciuta vicino al  fiume e di lui so quasi tutto. Ci sono persone che abitano qui che ne sanno anche più di me, alcuni pescatori, gli agricoltori, Marino. Una cosa sorprendente del mio fiume è la sua coerenza. Assomiglia sempre a se stesso. Quando torno da un viaggio, vado sempre a vedere come sta il fiume. Sta sempre lì, più o meno uguale. C’è stato un tempo in cui era cattivo: ogni tanto rompeva gli argini e inondava mezzo paese. Le case, le stalle, le rimesse, i campi. Faceva ribollire i tombini, annegare le lepri, marcire il granoturco. Poi sono stati rifatti gli argini e lui è diventato buono.  Non irrompe più, accompagna.  Accompagna e tace. E’ una presenza fisica e metafisica insieme.

E’ acqua e immagine, fondale e colore, argine e luce, pesci e pensieri, tramonti e passioni. Il fiume accompagna la vita, la guarda mentre cammina, incespica, riprende, finisce. Il fiume è una grande metafora usata da molti scrittori. Uno per tutti: Conrad. E poi Pavese, Soldati, Calvino, Guareschi, Arpino, Levi, Bacchelli.
Il fiume respira. Respira i pensieri della gente che ora sono di speranza. Speranza che questa malattia con tutti i suoi morti finisca, che si interrompa questa peste del 2020 con tutto il suo carico di orrore.
Non credo che la vita sarà più come prima. Non saranno più come prima la finanza, l’economia e il diritto. Non lo sarà la politica con tutto il suo strillare inutile e la ricerca continua della polemica che fa bene ai sondaggi. Non lo sarà la ricerca del divertimento a tutti i costi, delle vacanze di lusso, delle brutte citta outlet.

Invece so che il  fiume resterà tale, camminerà con la sua lunga scia, con le onde increspate dal vento, con il suo gorgogliare e il suo strano arrovellarsi su se stesso. Nel fiume ci sono correnti pericolose che creano vortici violenti. Nel mio paese si racconta di persone morte così.
Tante volte mi sono seduta sulle sponde del fiume, e il mio corpo si è come sollevato,  ho visto il fiume in tutto il suo corso, nella sua completa verità.
Dall’alto del cielo è tutto più chiaro, il sole scotta e gli alberi sono verdi, gialli e rossi.
Ho aperto le ali e sono volata in alto, nel cielo. Sopra il fiume e sopra l’acqua, nel vento e nel tempo. Dall’alto si vede meglio, brilla l’aria. Ho visto le case e le porte chiuse, le finestre e i camini, i tanti cortili. Qui quasi tutti hanno un cortile. Nel cortile si vive e si spera. In tempi di pandemia, si ritrovano ancora delle voci tra le mura di quei recinti.

Nei cortili ci sono le famiglie. Una delle nostre istituzioni fondanti. La famiglia può essere ricettacolo di nefandezze. Ma molto più spesso è fonte di sicurezza, di complicità, di fiducia. E’ la fiducia che gli altri ci saranno sempre per noi che ci permette di partire e tornare. La fiducia nella consolazione e nella complicità. E’ la fiducia che dà senso alla ricerca e alla scoperta, perché, a casa, ci sarà qualcuno che ascolterà e capirà. La famiglia è un nucleo primario che dà forza ai suoi appartenenti. I migliori pensieri vengono da lì. La coralità dei pensieri circoscrive e plasma l’appartenenza che sa poco di biologico e molto di umanità.  La forza  per diventare  mente e corpo che  vede, sente, crea, nasce così. La fiducia è il  motore del mondo. Nella possibile fiducia che una famiglia dona c’è una grande scommessa, una forte aspettativa per il futuro, un po’ del bene che verrà.

Nei cortili ci sono i polli. Io amo i polli. Quando ero piccola giocavo con loro. Adoravo i pulcini. Li adoro tutt’ora. Gli animali da cortile sono uno degli elementi essenziali dell’economia rurale. Sono una parte della famiglia. I polli sono rossi bianchi, corrono veloci, amano i vermi  e il radicchio. I polli mangiano sempre e se vedono un loro simile scavare col becco in un buco, fanno altrettanto. Per invidia, credo. In questo assomigliano alle persone. L’invidia è una delle grandi piaghe dell’umanità. Invidia per chi ha più di noi, per chi è più giovane, più bello, più ricco, “mangia” di più. Un mangiare che acquisisce un senso generico e non si riferisce solo al cibo, ma a una voracità sociale che include tutto l’afferrabile.

Nei cortili ci sono tante piante. I gerani e i campanelli. C’è il prezzemolo e la salvia nei vasi. Le fragole rampicanti, i pomodori. Il nostro polmone verde viene anche da lì. La vegetazione è fondamentale, le piante danno ossigeno, puliscono l’aria. Il rispetto per le piante è fondante. La potatura, l’attenzione ai parassiti, la fioritura, la raccolta. C’è qualcosa di sacro in tutto ciò. C’è l’esperienza dei nonni e c’è la consapevolezza dei saggi. C’è lo stupore dei bambini e c’è l’attaccamento dei più. Nelle piante c’è la linfa, c’è vita. Noi cerchiamo sempre ciò che è vivo, ciò che dà vita, ciò che rafforza con la sua vita la nostra vita e quella di tutti. (I polmoni che non funzionano più muoiono, la polmonite è virale, servono i respiratori).

Senza cortili, animali e alberi perdiamo consapevolezze importanti, rischiamo di non sapere più che uomini e donne siamo.
Il mio volo ritorna sul fiume. Vedo il suo corso, le sue anse strette, il suo incedere elegante. Vedo me da piccola e come sono ora, in un rimescolio del tempo che sa di magia e sorpresa. Vedo la gente che cammina lungo le sponde. Che il fiume accompagni le loro risate e i loro sospiri, li sostenga sempre col suo riparo e la sua acqua.
Il fiume per me c’è sempre e in questa certezza c’è il mondo e l’universo, il qui e ora, il là e il domani. Ciò che sarà. Vicino al fiume c’è la pace di chi si siede e lo guarda, dimentica i guai suoi e del mondo, dimentica che morirà. Questo è la magia del fiume. Ti fa sentire eterno, ti toglie la morte, se la tiene per sé. Il fiume è silenzio, pensiero, accompagnamento, eternità. Lungo il fiume si respira ciò che sarà.

Il volo finisce, torno a terra. Sulla riva. Mi rimetto le scarpe e sto ancora un po’ là.

 

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Catina Balotta

Sociologa e valutatrice indipendente. Si occupa di politiche di welfare con una particolare attenzione al tema delle Pari Opportunità. Ha lavorato per alcuni dei più importanti enti pubblici italiani.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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