Trump sembra un vincente ma la supremazia USA è già finita
Trump sembra un vincente ma la supremazia USA è già finita
Nel mio articolo precedente (vedi Qui) ho ragionato sull’impostazione di fondo del nuovo imperialismo trumpiano, supportato da un nuovo complesso militare-industriale-informatico ( e finanziario). Preannunciavo che questo ridisegno del mondo è sì molto pericoloso, soprattutto rispetto all’affermazione della tendenza alla guerra e di un regime dittatoriale interno, ma, nello stesso tempo, ha molti punti di debolezza e può essere messo seriamente in discussione.
Di questo mi occupo nelle valutazioni che seguono.
Intanto, un primo forte punto di difficoltà del progetto trumpiano è l’idea del ripristino di un’unica grande superpotenza mondiale, gli USA ovviamente, che si incarna bene nell’espressione MAGA (Make America Great Again). In realtà, essa non corrisponde alla realtà del mondo odierno, che, lo si voglia o meno, è contrassegnato da un assetto multipolare.
Deglobalizzazione e multipolarismo
Non solo non c’è un’unica superpotenza, ma neanche un sistema bipolare (USA versus Cina): la realtà è che, dentro il gorgo della globalizzazione, sono cresciute grandi e anche medie potenze, il cui ruolo non può essere ignorato nel governo degli equilibri mondiali. E i fatti reali hanno la testa dura, ben più delle ideologie che esprimono una falsa coscienza e dipingono un mondo capovolto.
Non ci sono solo USA e Cina, ma anche la Russia, l’India, il Brasile, l’Unione Europea (se così si può chiamare), l’Arabia Saudita, l’Iran, Israele, la Turchia e l’elenco potrebbe continuare.
Il tema non è semplicemente l’irruzione nello scenario mondiale dei BRICS, i Paesi guidati da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, che peraltro rappresentano il 41,4% del PIL mondiale a parità di potere di acquisto, mentre quello dei Paesi del G7 vale meno del 30% (nel 1990 tale valore era del 52%), anche perché non sono in grado di offrire una politica univoca e tantomeno alternativa nella costruzione di un nuovo ordine globale.
Il punto è che, nella deglobalizzazione, anche singoli Stati assumono ruoli rilevanti: basta pensare alla Turchia, che è contemporaneamente Paese strategico nella Nato e fiero oppositore di Israele e, non casualmente, omaggiato da Trump per la realizzazione, insieme ai Paesi arabi sunniti, della “fragile tregua” a Gaza (come oggi viene definita, con un’incredibile correzione in pochi giorni, dai media mainstream al posto della “pace eterna”). Oppure all’India, che la scellerata politica trumpiana dei dazi è riuscita nel miracolo di farla riavvicinare alla Cina, e che torna adesso ad essere oggetto di attenzione particolare dagli USA.
Insomma, il dato di un mondo multipolare è così forte ed evidente che la stessa presunta presunta supremazia americana, pragmaticamente, deve venirne a patti. Generando, però, un cortocircuito tra comportamenti concreti e loro rappresentazione (tra realtà ed ideologia) che è più foriera di instabilità e disordine mondiale piuttosto che di un nuovo equilibrio.
L’economia Usa in bilico
Il secondo elemento che mi fa dire che non funziona il progetto di Trump è che esso ha basi molto vulnerabili rispetto alla situazione economica degli Stati Uniti e dello stesso sistema capitalistico, perlomeno quello occidentale, se non addirittura mondiale.
Intanto va tenuto presente che l’economia statunitense si trova alle prese con problemi strutturali, quelli derivanti dai cosiddetti “deficit gemelli”, quelli relativi al deficit pubblico e ai conti con l’estero, che danno ragione della parabola discendente del ruolo dominante della sua egemonia e di quella del dollaro nel sistema economico-finanziario del mondo.
Gli Stati Uniti soffrono di un deficit pubblico e di un indebitamento con l’estero (il primo superiore a 1,900 miliardi di $, pari al 6,3% del PIL, il secondo arrivato a più di 26.000 miliardi di $) strutturali e crescenti, che vengono ulteriormente aggravati dalle ultime scelte di bilancio pubblico. (Vedi anche questo articolo di Alessio Marchionna su Internazionale)
Secondo autorevole analisi elaborate dal Comitato per un bilancio federale responsabile ( CRFB), gli stessi introiti previsti dalla scellerata politica dei dazi imposti da Trump non riusciranno a pareggiare il taglio delle tasse e delle spese introdotte con l’ultima legge di bilancio.
Ancor più dovrebbero far riflettere una serie di processi in corso, che sembrano sempre più assomigliare ai presupposti che diedero origine alla grande crisi sistemica del 2007-2008. Si moltiplicano le forme di “finanza ombra” (shadow banking), quella che agisce al di fuori degli elementi regolatori del sistema bancario classico, così come sta crescendo la bolla finanziaria di Wall Street, gonfiata dalle grandi aziende hitech, impegnate in primo luogo nella corsa all’intelligenza artificiale.
La nuova costruzione arrivata nella finanza ombra è quella delle stablecoin, incentivata dallo stesso Trump. Questo nuova “moneta”, il cui mercato è stimato, secondo Citigroup, possa crescere dagli attuali 260 miliardi di $ ai 3700 miliardi di $ nel 2030, ancorché progettata per mantenere un valore stabile con una valuta reale, solitamente il dollaro, in realtà può essere fonte di forti instabilità e speculazione nel sistema economico-finanziario.
Verso una nuova Grande Crisi?
La stessa esplosione degli investimenti nell’intelligenza artificiale, che nel 2024 sono assommati a 225 miliardi di $ e che molto probabilmente avranno una tendenza analoga nei prossimi anni, sta facendo sorgere molti dubbi sul fatto che avranno ritorni economici corrispondenti (a parte, ahimè, quelli previsti per il riarmo). Altre stime parlano del fatto che finora le “magnifiche sette” ( Nvidia, Microsoft, Alphabet-Google, Apple, Meta, Tesla e Amazon) hanno speso complessivamente 560 miliardi di $ a fronte di utili di soli 35 miliardi. Con il rischio che lo scoppio di un’eventuale bolla delle aziende hitech possa trascinare in una crisi significativa tutta Wall Street, visto che esse rappresentano ormai il 35% del valore della Borsa USA.
Senza contare che, da diverso tempo in qua, si sta registrando un forte disaccoppiamento tra crescita degli indici borsistici e l’andamento occupazionale: nell’ultimo anno Wall Street ha guadagnato il 50%, mentre le richieste di lavoro sono diminuite di circa il 31%. Insomma, ce n’è quanto basta per dire che siamo in presenza di sintomi consistenti per dire che i prossimi anni ci potranno portare ad una nuova Grande Crisi del sistema economico capitalistico che si regge sugli Stati Uniti.
Del resto lì si stanno levando voci sempre più forti nel predire quest’esito: da ultimo, Simon Johnson, premio Nobel per l’economia nel 2024, mette in guardia dal ruolo delle stablecoin, dicendo che esse, un po’ come i subprime nel 2007, sono candidate ad innescare tale crisi, mentre il ceo di JP Morgan avverte che che è probabile che si arrivi ad una “grave correzione del mercato, difficile da prevedere in anticipo, ma che potrebbe verificarsi nei prossimi 6 mesi, come nei prossimi 2 anni”. Un eufemismo per parlare della crisi economico-finanziaria prossima ventura.
Quando le piazze si riempiono
Infine, ma certamente non ultimo in ordine di importanza, un serio ostacolo per l’affermazione delle politiche trumpiane e, più in generale, della destra estrema nel mondo sta nel fatto che, per fortuna, stiamo assistendo ad una nuova fase di mobilitazione sociale importante.
Non c’è solo il movimento di grande rilievo che si è mosso in tutto il mondo per sostenere la causa palestinese e contro il genocidio lì perpetrato da Israele: basta guardare ai 7 milioni di persone che hanno manifestato nei giorni scorsi negli USA contro le politiche neofasciste del King Trump oppure al fatto che, in molti Paesi, dal Marocco al Madagascar, dall’Indonesia al Nepal, sia pur con motivazioni differenti, la generazione Z (pessima definizione, ma che può rendere l’idea per parlare dei cosiddetti nativi digitali) sta prendendo parola. Sono movimenti con caratteristiche diverse, ma che segnalano, da una parte, che è finito un periodo lungo di passività sociale e, dall’altra, che i nuovi strumenti tecnologici che dominano il mondo non soffocano necessariamente le istanze di partecipazione fisica e diretta e che quest’ultima si diffonde su scala globale.
Certo, sono anche movimenti fragili, esposti alla difficoltà di poter durare, sedimentare cultura, produrre politica, con modalità non “classiche” e che non sono facilmente comprensibili utilizzando schemi consolidati. E però, aggrediscono uno dei nodi fondamentali su cui, da sempre, si appoggiano i regimi di destra e autoritari, e cioè la passivizzazione e spoliticizzazione nella società.
Per restringere il campo al nostro Paese, non c’è dubbio che la storia dei movimenti sociali dall’inizio del secolo in qua, è stata contrassegnata dal tentativo di reprimerli o ignorarli, con lo scopo chiaro di renderli marginali, di restringere il loro spazio di allargamento del consenso. In quest’operazione – in specifico nel fatto di ignorarli- purtroppo non si è sottratta nemmeno la “sinistra” politica, che oggi, non a caso, vive una crisi di rappresentanza e deve misurarsi con la giusta autorappresentazione delle persone e della società, come è evidente nelle grandi piazze animate dal nostro movimento a sostegno del popolo palestinese.
Certo, tutto ciò è ancora un embrione, che a me fa dire che siamo solo all’inizio di un percorso che non sarà né breve né facile: il movimento imponente che abbiamo visto in questo periodo ha necessità di ricollocarsi e di costruire sapere collettivo, affrontando il tema della lotta alla guerra e al riarmo, svelando i meccanismi strutturali che stanno anche alla della fragile tregua, e non della pace, che è in atto in Palestina. Così come, a sinistra, occorrerà porsi il tema di una ricostruzione delle forme della politica, capace di porsi nuovamente l’idea, oggi smarrita, di rappresentare le parti deboli e oppresse della società.
Non c’è dubbio però che oggi, con le mobilitazioni dei giorni passati, abbiamo una leva da cui ripartire.
Scriveva, più o meno un secolo fa, un grande pensatore e politico, Antonio Gramsci: “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo, Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza”. Il mondo oggi è assolutamente diverso da quello in cui scriveva Gramsci, e le parole d’ordine dell’istruzione, dell’agitazione e dell’organizzazione vanno pensate in modo inedito, ma continuano ad essere il fulcro di chi intende proporre un’alternativa di società e di sistema.
In copertina: Donald Trump – immagine di Aliseo su licenza Wikimedia Commons
Per leggere gli articoli di Corrado Oddi su Periscopio clicca sul nome dell’autore.
Lascia un commento