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DA MOSCA – Basta trovarsi all’aeroporto di Roma Fiumicino, diretti a Mosca, non importa se nella fila degli imbarchi di business class o di economy, per ritrovarsi sommersi da pacchi, pacchetti e pacchettini delle più note e costose case di moda italiane. Gucci, Valentino, Dolce e Gabbana, Ferragamo, La Perla, Missoni, Furla e Fendi sono solo alcune delle firme fiammanti che campeggiano sulle spalle di ragazzi robusti e imponenti.
Quasi inciampiamo in vocianti viaggiatori che parlano sempre e solo rigorosamente russo, perché a loro avviso tutti devono capire; uomini e donne si fanno strada e mettono in crisi la povera hostess che non capisce e che tenta di spiegar loro, nel suo inglese perfetto, a essi quasi del tutto incomprensibile, che vi sono limiti nei bagagli per volumi e pesi.
E’ quasi una voglia di riscatto, un tentativo di marcare terreno e far comprendere che si è arrivati (ma arrivati dove?), che quando si vuole si pretende e si deve avere, senza troppe discussioni e sforzi. Salvo che questo riscatto è sicuramente solo per alcuni, anzi direi per pochi. Parliamo dei nuovi ricchi russi, non solo degli scaltri uomini d’affari che, con la caduta del comunismo, si sono impadroniti di grandi ricchezze del Paese, ma anche di nuove generazioni che hanno fatto fortuna in settori quali quello tecnologico, l’unico in cui i miliardari sono prevalentemente giovani e hanno accumulato “da soli” grandi patrimoni.

Secondo uno studio del 2012 di Forbes Insight e Societé Generale, riportato dal Financial Times, Russia e Cina contano più di 100 miliardari, raggiungendo gli Stati Uniti e superandoli “in termini età”: i 115 miliardari cinesi e i 101 miliardari russi sono infatti più giovani. I russi, in particolare, sono in media 10 anni più giovani dei miliardari indiani e 25 anni più giovani di quelli francesi. Sempre secondo la rivista Forbes, solo nella capitale russa vivono 25 miliardari, e ben 88 mila sono i milionari nella regione. Senza entrare nel merito delle fortune e dei destini di coloro che vengono definiti i potenti e influenti “grandi oligarchi” (Sergueï Pougatchev, Guennadi Timtchenko, Iouri Kovaltchouk, Arkadi Rotenberg, Boris Rotenberg), dei casi come quelli di Nikolai Smolenskj (a 24 anni, terminati gli studi, non ha trovato la Mercedes nera sotto casa con il fiocco rosso, ma ha scoperto di essere diventato proprietario della fabbrica dei più esclusivi bolidi inglesi, la Tvr) o di Roman Abramovich (l’uomo più ricco di Russia che ha acquistato il Chelsea Football Club), ammettiamo di rimanere spesso colpiti, girando per le strade di Mosca, da alcuni aspetti in grande contraddizione fra loro.
Se passeggio lungo la centrale, aristocratica ed elegante via Ostozhenka, diretta verso la Chiesta del Cristo Salvatore e le sue guglie dorate, vengo superata da fiammanti bolidi che, oltre a violare ogni minima regola di velocità, sfiorano il limite della maleducazione e del buongusto. La Jaguar parcheggiata con il cofano occupato da un vellutato felino dipinto sdraiato non è da meno. Vedi poi sfilare ragazze pettinate, truccate e profumate che sembrano uscite dalle copertine di Vogue o di Vanity Fair, pellicce sfavillanti e tacchi a spillo anche a meno venti gradi. A pochi metri, alla fermata del metro Kropotkinskaya, gruppi di barboni parlottano fra loro, la bottiglia nascosta dietro il cappotto malconcio e liso. Uno di loro parla concitatamente con un coetaneo e a un certo punto scoppia in lacrime.

Mentre la corsa frenetica al consumo si perpetua, dall’altra parte della strada qualcuno ha perso i suoi punti di riferimento. Accanto a miliardari, milionari o ricchi, 30 milioni di persone vivono sotto la soglia della povertà. Attraversando il ponte sulla Moscova vicino alla Chiesa citata, si arriva al quartiere trendy di Krasny Oktyabr (Ottobre Rosso). Qui troviamo la fabbrica di cioccolato Einem, aperta nel 1867 dai tedeschi Theodor Ferdinand von Einem e Julius Heuss, nazionalizzata nel 1918 e, nel 1992, ribattezzata appunto Ottobre Rosso. Dal 2010, il quartiere – il cui nome ben si addice se si osservano i bricchi color rosso acceso – non ha più niente a che fare con il cioccolato, se non per il nome che è rimasto sulle classiche tavolette che si acquistano come souvenir. Oggi l’area, che si trova di fronte all’imponente monumento di Pietro il Grande che svetta su un’altrettanto imponente nave, ospita centri di fotografia dal forte e penetrante odore di pellicola, gallerie moderne e alternative, locali alla moda.
Qualche collega mi raccontava che qui, a Dicembre 2012, il lusso italiano di Exhibitaly aveva fatto man bassa. Un lusso dove il fattore prezzo non esiste, un inno alla creatività e alla qualità, l’essenza della dimostrazione di un benessere acquisito al quale nessuno vuole rinunciare, una grande opportunità, tuttavia, per il nostro Paese.

La passione per il made in Italy è sorprendente anche per chi è abituato a leggere statistiche e articoli. Sembra un sogno. Ma se Amartya Sen, premio Nobel per l’economia, diceva che “la povertà non dipende dalla quantità di beni, ma dalle possibilità delle persone di avere accesso a questi beni” e se circa il 70% dei lavoratori, in Russia, riceve meno di 120 euro al mese di stipendio, la povertà qui esiste davvero, in mezzo a tanto nuovi ricchi. E il divario si vede. Lo vedo quando vado ai magazzini Gym vicino al Cremlino o quando entro, accanto al Teatro Bolshoi, negli ancora più lussuosi e inaccessibili Zym, dove, ingenua, avevo accarezzato l’idea di acquistare un bel colbacco bianco che prontamente abbandono a causa del suo prezzo (6000 euro!).

All’uscita penso che sia meglio andarsene da McDonald’s quando incrocio un venditore ambulante di qualche prodotto simile a noccioline che fatica a far quadrare il già misero bilancio familiare. Forse quest’uomo dalla faccia triste e un po’ spenta è georgiano. Questo incredibile divario lo vedo ancora quando scambio quelle poche parole di russo che conosco con le babushke (letteralmente “le nonne”) che lavorano, giorno e notte, nelle portinerie dei palazzi moscoviti, nel tentativo di integrare le loro piccole pensioni (sempre che le ricevano) con un’entrata sicura. Per la stessa ragione, alcune di loro spazzano le scale delle fermate della metropolitana, altre vendono fiori rosa e violetti o prodotti dell’orto per la strada. E’ grande l’affetto dei russi per le loro nonnine, da sempre depositarie di saggezza e di regole di buona cucina casalinga e familiare, piccole donne che con i loro visi segnati dagli anni e gli immancabili fazzoletti colorati annodati sulla testa canuta continuano a mostrare il volto di una Russia povera e antica, anche negli angoli più moderni di una capitale lanciata verso il futuro. Per molte di loro la vita è diventata difficile, dopo la fine del Comunismo, le vedi a guardia delle portinerie, attenti controllori di biglietti nei teatri, nelle stanze dei musei o nei loro guardaroba, azionatrici di scale mobili delle metropolitane, distributrici di giornali fuori dalle stazioni; altre meno fortunate chiedono l’elemosina ai passanti indaffarati, curati e ben vestiti, illuminati da sfavillanti e costose luci natalizie.

La Russia non ha mai conosciuto tanta ricchezza ma la sua ripartizione resta ancora un’utopia. Le spese per le funzioni sociali raggiungono a malapena il 3% del PIL, e nonostante i nuovi consumatori, a volte eccessivi, euforici ed entusiasti, le differenze ci sono e, a occhio attento e sensibile, si notano. Non parliamo poi dell’entroterra, che non conosciamo ancora, ma che osservo da alcuni video e da fotografie che appaiono sul web. Non mancano poi le critiche feroci a questa società fittizia, anche da parte di giovani artisti. Basti vedere il video della canzone ya liubliu neft (amo il petrolio) del DJ Smash, Andrey Leonidovich Shirman, classe 1982, divertente ma allo stesso spietato.

Detto questo, vogliamo però concludere con una riflessione. Abbiamo parlato della dimensione negativa di tanta opulenza e di grandi disparità, peraltro non prerogativa della sola società russa. Non vogliamo con questo dire che qui non vi siano molte cose belle, bellissime. Vedrete.

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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