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Presto di mattina. Quaresima nella città

Beatitudine della Quaresima

Quella della Quaresima è una beatitudine in germe. Concepimento di grazia, protesa verso la gioia pasquale, è in cammino sulle orme di Cristo, in ascolto della voce dello Spirito. Non avere timore, non è il vento spettrale; né spegne la tua lampada il suo soffio. Egli è lo Spirito che comunica libertà, fa sorgere la tua luce, guarisce la tua ferita.

Come sui rami spogli sotto indurite scorze si snodano intime e tenere gemme così le beatitudini del Regno, lungo l’austero cammino quaresimale, conturbando l’inverno del disamore nel suo sonno.

Un duplice ascolto: quello della parola di Dio e l’ascolto della povera gente. Qui sta il cuore dell’esercizio spirituale della Quaresima; qui e non altrove sei in ascolto della voce dello Spirito, che mormora in te da quando sei stato portato al fonte battesimale:

«Beati quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 11, 28).

«Beato chi ha cura del debole: nel giorno della sventura il Signore lo libera. Il Signore veglierà su di lui (Sal 41, 2-3).

Quaresima è il tempo per ricevere la forma Christi ed essere conformati all’immagine di colui che è fedele per sempre, rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati, libera i prigionieri, ridona la vista ai ciechi, rialza chi è caduto, ama i giusti, protegge lo straniero, sostiene l’orfano e la vedova; colui che farà risplendere su di noi la luce del suo volto (cf. Sal 146).

Il mio canto nuovo sei tu, tu la mia luce

Colui che si fa conoscere lungo i sentieri della Quaresima comunica libertà e liberazione, ci ha ricordato papa Francesco. Così, “stato interessante” è il tempo della Quaresima, gestazione di un canto nuovo, di un sentimento nuovo per un uomo nuovo, quello di colui che ama. «Sopra i retaggi della gente, Tu il mio canto libero che apre all’immensità sorretto da un anelito d’amore, di vero amore» (Lucio Battisti), camminando fianco a fianco Tu ed io.

Concedi ch’io possa rimanere
per un momento al tuo fianco.
Le opere cui sto attendendo
potrò finirle più tardi.
Lontano dalla vista del tuo volto
non conosco né tregua né riposo
e il mio lavoro
diventa una pena senza fine
in un mare sconfinato di dolori.
Ora è tempo di stare tranquilli
a faccia a faccia con te
e di cantare la consacrazione
della mia vita
in questa calma straripante e silenziosa.
Il mio canto ha deposto ogni clamore.
Non sfoggia splendide vesti
né ornamenti fastosi:
non farebbero che separarci
l’uno dall’altro, e il loro artificio
coprirebbe quello che sussurri.
La mia vanità di poeta
alla tua vista muore di vergogna.
O sommo poeta,
mi sono seduto ai tuoi piedi.
Voglio rendere semplice e schietta
la mia vita,
come un flauto di canna
che tu possa riempire di musica.

Quando mi comandi di cantare, il mio cuore
sembra scoppiare di gioia
e fisso il tuo volto
Con l’ala distesa del mio canto
sfioro i tuoi piedi, che mai
avrei pensato di poter sfiorare.
Felice del mio canto
dimentico me stesso
e chiamo amico te
che sei il mio signore.

Luce, mia luce!
Luce che inondi la terra
luce che baci gli occhi
luce che addolcisce il cuore!
(Rabindranath Tagore, Poesie, E-book, REA Multimedia, L’Aquila 2013, 10; 7;52).

E così profetizza Isaia le parole di Jhwh su di noi: anche «la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto».

 Sì, ma quando?

Quando scioglierai le catene inique,
toglierai i legami del giogo,
rimanderai liberi gli oppressi
e spezzerai ogni giogo.
Quando dividerai il pane con l’affamato,
introdurrai in casa i miseri, senza tetto,
nel vestire uno che vedi nudo,
senza trascurare i tuoi parenti.
Allora la tua luce sorgerà come l’aurora,
la tua ferita si rimarginerà presto.
Davanti a te camminerà la tua giustizia,
la gloria del Signore ti seguirà.
Allora invocherai e il Signore ti risponderà,
implorerai aiuto ed egli dirà: «Eccomi!».
Se toglierai di mezzo a te l’oppressione,
il puntare il dito e il parlare empio,
se aprirai il tuo cuore all’affamato,
se sazierai l’afflitto di cuore,
allora brillerà fra le tenebre la tua luce,
la tua tenebra sarà come il meriggio.
Sarai come un giardino irrigato
e come una sorgente
le cui acque non inaridiscono
(Is 58, 5-11).

Quaresima nella città

Quaresima è il tempo della primavera della comunità cristiana e anche della città. In inglese i termini lent e long – quaresima lunga – fanno riferimento ad un primo significato: quello dell’allungarsi delle giornate in primavera. Era l’itinerario di una conversione, quella dei catecumeni incamminati verso la Pasqua all’incontro con Cristo nei sacramenti del Battesimo, della Cresima e dell’Eucaristia. E i neofiti – “nuovi germogli” – i nuovi battezzati sono proprio il segno di questa primavera che fiorisce a Pasqua.

Ci ha ricordato Carlo Maria Martini che la comunità cristiana, al pari della città, è «il luogo di una identità che si ricostruisce continuamente a partire dal nuovo, dal diverso, e la sua natura incarna il coordinamento delle due tensioni che arricchiscono e rallegrano la vita dell’uomo: la fatica dell’apertura e la dolcezza del riconoscimento. Ambrogio le caratterizzava secondo la nota formula: “cercare sempre il nuovo e custodire ciò che si è conseguitoDe Paradiso, 4,25 (Paure e speranze di una città, Discorso del Card. C. M. Martini al consiglio comunale di Milano alla fine del suo episcopato 28 giugno 2002).

Si legge nel libro del Siracide (4, 1-5): «Figlio, non rifiutare il sostentamento al povero, non essere insensibile allo sguardo dei bisognosi. Non rattristare un affamato, non esasperare un uomo già in difficoltà. Non distogliere lo sguardo dall’indigente. Da chi ti chiede non distogliere lo sguardo».

… a misura di sguardo

La Quaresima ci chiede così di vivere «la città a misura di sguardo», perché proprio la città permette tutta una serie di relazioni di prossimità, tra le quali, però, va prediletto lo sguardo rivolto ai deboli. Ci chiede infatti di pensare «la città per i deboli».

Scrive ancora Martini: «Ed è soprattutto ai deboli che va il nostro pensiero. È inutile illudersi: la storia insegna che quasi mai è stato il pane ad andare verso i poveri, ma i poveri ad andare dove c’è il pane. “Scegliersi l’ospite è un avvilire l’ospitalità” diceva Ambrogio (Exp. Luc., VI,66). Ma ciò non significa un’accettazione passiva, subìta e dissennata, né l’accoglimento solo di quell’ospite che sia simile a noi: il magnanimo ospitante non teme il diverso, perché è forte della propria identità.

Il vero problema è che le nostre città, al di là delle accelerazioni indotte da fatti contingenti, non sono più sicure della propria identità e del proprio ruolo umanizzatore, e scambiano questa loro insicurezza di fondo con una insicurezza di importazione. E invece il tarlo è già in esse ed è qui che lo si deve combattere con lucidità, vedendo la città come opportunità e non solo come difficoltà. La città va scelta e costruita con intelligenza e con magnanimità…

Parrebbe a volte che la città – in particolare nei suoi membri più potenti – abbia paura dei più deboli e che la politica urbana tenda a ricercare la tranquillità mediante la tutela della potenza. Non è la lezione di Ambrogio, per il quale la politica è eminentemente a servizio dei più deboli. Questo non è un invito vagamente moralistico, ma ha efficacia politica.

La paura urbana si può vincere con un soprassalto di partecipazione cordiale, non di chiusure paurose; con un ritorno ad occupare attivamente il proprio territorio e ad occuparsi di esso; con un controllo sociale più serrato sugli spazi territoriali e ideali, non con la fuga e la recriminazione. Chi si isola è destinato a fuggire all’infinito, perché troverà sempre un qualche disturbo che gli fa eludere il problema della relazione: dice Ambrogio: “comune è il dovere di intrattenere relazioni” (Exameron, V, ser. VIII, 21,66)».

Dio delle città

«Uomini soli» è una canzone dei Pooh del 1990. Narra storie di solitudine e di emarginazione in un contesto sociale sempre più individualista, dove è difficile comunicare e agire per un cambiamento, un’integrazione segnata dall’amore. Così Dio è invocato come Dio delle città e dell’immensità, non solo di lassù, ma di quaggiù; tessitore di umanità nell’umanità del Figlio venuto a riannodare i fili perduti. E tutto ciò per dire che l’uomo non è solo, abbandonato fino in fondo.

Dio delle città e dell’immensità
se è vero che ci sei e hai viaggiato più di noi
vediamo se si può imparare questa vita
e magari un po’ cambiarla
prima che ci cambi lei.
vediamo se si può
farci amare come siamo
senza violentarci più
con nevrosi e gelosie

Ma Dio delle città e dell’immensità
magari tu ci sei e problemi non ne hai
ma quaggiù non siamo in cielo
e se un uomo perde il filo
è soltanto un uomo solo.

Il povero nella città (G. Ungaretti)

Anche il poeta volge lo sguardo al povero per dire di sé, della precarietà del vivere e di quel patire che genera solidarietà. Il poeta è un povero della parola, che tuttavia sa cogliere con le parole i legami ermetici, impenetrabili, nascosti nelle cose e negli eventi.

Il povero nella città (con un saggio di Carlo Ossola, SE, Milano 1993) è un testo poco noto, nel quale Ungaretti ha voluto raccogliere le sue prose, considerate – da Angelo Romanò in un articolo su Vita e Pensiero (3/1950, 160) – «come preziosa preparazione, come premessa alla formulazione della sua poetica».

Il poeta francese, Saint-John Perse dirà di Ungaretti: un «poeta, di cui l’atto poetico fu innanzitutto testimonianza d’essere umano». Così egli è grido d’uomo che sillaba pure la sua prosa, narrando il suo patimento d’uomo e d’uomini. In un certo senso si potrebbe dire che il povero, il viandante ci mostrano la strada dell’umano nella città, come al poeta il suo lavoro: «… i miei studi non potrebbero avere altra mira se non il mio lavoro di poeta: non potrebbero averne altra, e in quella stessa guisa che a tale lavoro fatalmente convergono, ispirandolo, le varie esperienze della mia vita» (Romanò, 158).

Nel saggio, Ungaretti ricorda una particolare figura di povero, il faqir, mendicante asceta originario della civiltà dei deserti, itinerante tra città «che porta con sé non solo la storia di una povertà e di un’esclusione, ma soprattutto il privilegio di una grandezza non più sottoposta alla misura, all’ingombro delle cose» (Carlo Ossola).

Scrive Ungaretti: «Ciò che si sa meno è che esiste tra gli Arabi un tipo – un modo d’essere umano – al quale danno il nome di faqir. E costui, chi sarà mai? Non è colui che fachiro s’usa abitualmente chiamare. Non è il mangiatore di fuoco, l’ingoiatore di spade… Il mio fachiro è, come dice in arabo faqir, semplicemente un povero.

Il matto e il povero nella mente dell’Arabo sono un po’ la medesima idea: l’uomo che non fa conti e non ha vincoli, che è armato d’una forza occulta; l’uomo che governano una debolezza e una forza smisurate; l’uomo che è debole come è uno all’inizio e al termine dell’avventura terrena: quando si nasce e si è per forza nudi, e, dopo, quando si è sprecata, in pochi o molti anni, la ricchezza immensa che è la vita. Il faqir è anche l’uomo che è forte, l’uomo che testimonia che solo vive chi vede l’Angelo… veggenza dell’invisibile».

Al suo popolo e alla città «il faqir ricorda l’origine, la sorte, le vicende della sua storia; ma soprattutto il faqir è il segno vivente del sacro, uno che è libero perché è protetto da gesti e da parole strani, incomprensibili; di più: uno che è sorto a simbolo di libertà» (ivi, 14-15; 18).

Dio nella città

Quand’era ancora cardinale, papa Francesco pronunciò il discorso Dios en la ciudad durante il I Congresso di pastorale urbana a Buenos Aires nel 2011. Il testo di questo discorso, insieme ai paragrafi sulla città del Documento conclusivo della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi nel 2007 tenuto ad Aparecida, sono raccolti in un libro: Dio nella città, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 2013.

In quell’occasione Francesco ricordava la felice espressione di Aparecida: “Dio vive nella città”. «La fede c’insegna che Dio vive nella città, all’interno delle sue gioie, dei suoi aneliti e delle sue speranze, come dei suoi dolori e delle sue sofferenze.

Le ombre che segnano il quotidiano delle città, come per esempio la violenza, la povertà, l’individualismo e l’esclusione, non possono impedirci di cercare e di contemplare il Dio della vita anche negli ambienti urbani.

Le città sono luoghi di libertà e di opportunità. In esse le persone hanno la possibilità di conoscere altre persone, di interagire e di convivere con esse. Nelle città è possibile fare l’esperienza di nuovi vincoli di fraternità, di solidarietà e di universalità. In esse, l’essere umano è chiamato sempre più costantemente ad andare incontro all’altro, a convivere con il diverso, ad accettarlo e a esserne accettato» (DA, 514).

Una città a misura dello sguardo della fede

«Si può dire che lo sguardo della fede ci porta a uscire ogni giorno e sempre più incontro al prossimo che abita nella città. Ci porta a uscire incontro all’altro, perché si alimenta con la prossimità. Non tollera la distanza, poiché percepisce che essa rende confuso ciò che vuol vedere; e la fede vuol vedere per servire e amare, non per constatare o dominare.

Uscendo per le strade, la fede limita l’avidità dello sguardo di dominio e aiuta il prossimo – quel prossimo concreto, che guarda con il desiderio di servirlo – a mettere meglio a fuoco il suo stesso “oggetto proprio e amato”, Gesù Cristo venuto nella carne. Chi dice di credere in Dio e “non vede” suo fratello, inganna se stesso.

Il perfezionamento nella fede in questo Dio che vive nella città rinnova la speranza di nuovi incontri. La speranza ci libera da quella forza centripeta che porta l’attuale cittadino a vivere isolato nella grande città, in attesa di riscatto e connesso solo virtualmente.

Il credente che guarda con la luce della speranza combatte la tentazione di non guardare, restando trincerato dietro i bastioni della propria nostalgia o lasciandosi muovere dalla sete del gossip. Il suo non è lo sguardo avido del “vediamo che è successo oggi” dei notiziari.

Lo sguardo della speranza è simile a quello del Padre misericordioso, che esce tutti le mattine e tutte le sere sulla terrazza di casa per attendere il rientro del suo figlio prodigo, e appena lo scorge da lontano gli corre incontro e lo abbraccia.

In tal senso, lo sguardo della fede, come si alimenta di prossimità e non tollera la distanza, così anche non si sazia del momentaneo e del circostanziale, e perciò, per ben vedere, si coinvolge nei processi che sono propri di tutto ciò che vive. Lo sguardo di fede, nel coinvolgersi, agisce come fermento. E visto che i processi vitali richiedono tempo, li accompagna…

La misericordia crea la vicinanza più grande, che è quella dei volti, e visto che intende aiutare davvero, cerca la verità che fa più male – quella del peccato – ma per trovare il vero rimedio. Questo sguardo è personale e comunitario» (ivi, 35-37; 42-43).

Quali i segni della presenza di Dio nella città?

Per me sono l’esperienza, il vissuto, personale e comunitario del Padre nostro, delle Beatitudini e della scelta preferenziale dei poveri. Ben più articolata è la risposta nel Documento di Aparecida (383) che ricorda i segni della presenza del Regno di Dio nella città:

«I segni evidenti della presenza del Regno sono, tra gli altri: l’esperienza personale e comunitaria delle beatitudini, l’evangelizzazione dei poveri, la conoscenza e l’adempimento della volontà del Padre, il martirio per la fede, l’accesso a tutti i beni della creazione, il perdono reciproco, sincero e fraterno, l’accettazione e il rispetto della ricchezza presente nella pluralità, la lotta per non soccombere alla tentazione e per non essere schiavi del male».

Ed Egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva:

«Beati voi, poveri,
perché vostro è il regno di Dio.
Beati voi, che ora avete fame,
perché sarete saziati.
Beati voi, che ora piangete,
perché riderete
(Lc 6,20-21).

La sua dimora è tra i poveri

Questo è il tuo sgabello:
riposaci i piedi, qui
dove vivono i più poveri,
gli umili, i perduti.
Quando cerco di inchinarmi a te,
i miei ginocchi non toccano
il profondo in cui i tuoi piedi
riposano tra i più poveri
umili e perduti al mondo.
Nessun orgoglio può mai arrivare
dove cammini tu, che hai indosso
le vesti dei più poveri,
umili e perduti.
Il mio cuore non sa imboccare
la giusta via per scendere laggiù
in fondo, per fare compagnia a quelli
che non hanno compagni, tra i più poveri
umili e perduti al mondo.
(Tagore, Gitanjali. Canti di offerta, San Paolo, Cinisello Balsamo MI, 1993, 36)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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