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Fede migrante

Avere fede equivale a migrare, fare esperienza di relazione, l’aprirsi di un nuovo spazio nell’altro e nell’altrove, affacciarsi su un mondo ignoto per riconoscerlo ed esser conosciuti. È così la stessa fede di migranti – di un perdersi per ritrovarsi – che accompagna e rinnova lo spirito del vangelo tra di noi.

Ce lo ha ricordato a modo suo il papa nel giorno dell’Epifania, compresa come migrazione dei popoli alla ricerca di una nuova luce. Francesco ci ha rammentato che è necessario rischiare il cammino per incontrare la luce, anch’essa perennemente migrante sino a tracciare essa stessa un cammino di riconoscimento.

Da quel primo e abissale “grande scoppio” – sia la luce – la “voce” di Dio Qol in ebraico è paragonata ad un’esplosione cosmica nel salmo 28 (29), assimilata al folgorante e fragoroso lampo dentro alla tempesta e sulle acque.

Così la luce, chiamata fuori dalle tenebre all’inizio dei tempi, si è pure lei incamminata nel suo sorgere, illuminando tutte le cose per cavarle fuori dal caos oscuro in cui erano immerse, rendendole conoscibili a loro stesse perché illuminate e benedette fin dall’inizio nella pace.

Luce migrante è non di meno quella della natività. Irradiazione tra le genti, il suo cammino va ad accendere la luce pasquale, senza fermarsi neppure al mattino di Pasqua, ma proseguendo oltre, tra le nuove genti, sui cammini dei migranti della storia, alle periferie dell’esistenza e ai confini del tempo. Come la luce migrante, primordiale è generativa della stessa espansione dell’universo, così la luce della fede dilata la nostra umanità rendendola planetaria.

La fede non è se non migrante, perché – come ha ricordato ancora Francesco – essa «non cresce se rimane statica; non possiamo rinchiuderla in qualche devozione personale o confinarla nelle mura delle chiese, ma occorre portarla fuori, viverla in costante cammino verso Dio e verso i fratelli».

Credere significa partire, come nascere e morire, come leggere e scrivere: comportano una migrazione nell’altro, l’aprirsi di uno spazio nell’altrove. Così migrando tra le pagine e le parole nella scrittura d’altri, mi si aperto uno spazio inedito per questa riflessione sulla fede come migrazione.

L’input non è partito in verità da Francesco, come può sembrare dall’incipit di questo testo, ma leggendo una conversazione pubblicata sul Corriere della sera (1 ottobre 2009, 50-51) tra lo scrittore Claudio Magris e Édouard Glissant, (1928-2011) un altro scrittore, noto etnografo delle culture e delle pratiche dei gruppi umani, e poeta pure, nato nella Martinica dei Caraibi, arcipelago delle Antille, luogo di civiltà differenti che prende il nome da La Antilla, terra lontana da cui provenivano gli scopritori di quelle isole.

«Vivere significa migrare: ogni identità è una relazione»

Ogni relazione è una “complessità multipla”, implica nell’incontro il riconoscimento dell’altro, dell’estraneo in quanto tale. Riconoscere non è sinonimo di comprendere, nel senso di appropriazione, di chi vuol ridurre l’altro a sé stesso, alla propria scala di valori. Per essere solidali con l’altro occorre condividere l’imperfezione, in una relazione che lasci aperto quello spazio di mistero, di diversità irriducibile, di opacità – la chiama Glissant – che salvaguarda l’altro dall’assimilazione all’identità altrui.

«Non mi è necessario “comprendere” l’altro per sentirmi solidale con lui, per costruire con lui, per amare quello che fa». L’amore sa accogliere anche l’estraneità, la solitudine, la distanza che segna ogni relazione; sa comprendere senza ghermire, rinunciando ad esercitare sull’altro una presa totalizzante che genera il più delle volte pratiche di violenza. Per questo Glissant fu durissimo nel denunciare la brutalità dei genocidi, della tratta degli schivi, durata per secoli, e della segregazione razziale nelle piantagioni dell’arcipelago.

Glissant, a cui sta a cuore ogni cultura minacciata, compresa la sua, ricorda che ogni identità ed il mondo stesso si costruiscono in un processo creativo e armonioso. Un processo che egli definisce “creolizzazione”, ispirandosi al creolo, la lingua formatasi dalla commistione dei dialetti francesi dei padroni delle piantagioni con i differenti linguaggi di uomini e donne ridotti in schiavitù.

A me sembra che le categorie dello scrittore creolo siano illuminanti anche per ogni credente. A partire dal concetto di erranza, in quanto «ogni identità esiste nella relazione; è solo nel rapporto con l’altro che cresco, cambiando senza snaturanti».

Ma quella narrata nei suoi libri è pure la poetica del diverso: «di un diverso che non si isola», perché «la muraglia è la prigione dell’identità». Senza dimenticare infine l’opacità di cui parla Glissant, la stessa verso cui si protende la nostra fede, come un’apertura sulle cose che si sperano, una proiezione dello sguardo e della vita verso quelle che non si vedono. «Bisogna vivere con l’altro e amarlo, accettando di non poterlo capire a fondo e di poter essere capiti a fondo da lui». Non è questa la fede che camminando insieme crede sperando e spera amando?

L’erranza delle parole dall’oralità alla scrittura

La Bibbia è storia di un vissuto che nasce da migrazioni di popoli; è pure quella biblioteca scritta da migranti che narra di un Dio che si nasconde e dimora tra loro. Nell’oscurità delle migrazioni ha così luogo e germinano profezie di futuro.

È proprio mentre sono in fuga o in viaggio che Giacobbe, Elia, e Giona incontrano Dio, particolarmente vicino, esondante sulle acque e inesauribile nell’immaginazione. Abramo viene spinto a partire: “vattene dalla tua terra verso un dove che ti mostrerò cammin facendo, non temere la legatura di Isacco tuo figlio”.

Davanti al roveto ardente, in mezzo al deserto, di fronte al Sinai a piedi nudi, pascolando un gregge di nomadi con il volto coperto, Mosè chiede a Dio quale sia il suo nome. E Dio gli risponde: “Colui che fa partire” (Michel De Certeau) e il predicatore errante della Galilea delle genti dice di sé di non avere una tana come le volpi, né un nido, né una pietra su cui posare il capo. (cfr. Mt 8,20; Lc 9,58).

Claudio Magris sottolinea poi come in Glissant «l’erranza sia un principio che vale in tutti i campi della vita, anche nella scrittura. Ogni realtà è un arcipelago; vivere e scrivere significa errare da un’isola all’altra, ognuna delle quali diventa un po’ la nostra patria.

La verità umana non è quella dell’assoluto bensì quella della relazione. Ogni identità esiste nella relazione; è solo nel rapporto con l’altro che cresco, cambiando senza snaturarmi. Ogni storia rinvia ad un’altra e sfocia in un’altra … Ci sono molte radici; se una si proclama unica o esclusiva distrugge la vita, sia che si tratti di una radice piccola gelosamente chiusa nella sua particolarità, sia che si tratti di una grande e potente, come la civiltà universale reclamata dal colonialismo…

Nell’opera di Édouard Glissant – continua Magris – vivono il narratore orale anonimo che nella stiva delle navi negriere e nelle piantagioni trasmetteva la memoria dell’Africa perduta, e i classici francesi, di cui la sua prosa è geniale e organica erede, in una continuità perpetuata nell’ardita innovazione strutturale delle forme narrative».

Radice e rizoma

Ci sono delle culture “a radice unica”, a freccia, quelle che tendono all’auto-conservazione. Altre invece sono “a rizoma”, perché si espandono in diverse direzioni: specie quelle nate da una recente “creolizzazione” e quindi coscienti della loro realtà plurima.

Riproponendo la distinzione tra i termini radice e rizoma mutuata da Gilles Deleuze e Felix Guattari ne La poetica della relazione (Macerata, Quodlibet, 2007, 23; 29), Glissant scrive: «La radice è unica, è un ceppo che assume tutto su di sé e uccide quanto lo circonda; essi le oppongono il rizoma, radice demoltiplicata che si estende in reticoli nella terra e nell’ aria, senza che intervenga alcun irrimediabile ceppo predatore.

La nozione di rizoma manterrebbe quindi l’aspetto del radicamento, rifiutando però l’idea di una radice totalitaria. Il pensiero rizomatico sarebbe all’origine di quella che io chiamo una poetica della Relazione, secondo la quale ogni identità si estende in un rapporto con l’Altro…

In questo consiste l’immagine del rizoma, che conduce alla scoperta di un’identità che non è più solo nella radice, ma anche nella Relazione. Il pensiero dell’erranza è, di fatto, anche pensiero del relativo, che è il ritrasmesso ma anche il relato. Il pensiero dell’erranza è una poetica, e sottintende che a un dato momento essa si dica. Il detto dell’erranza è quello della Relazione».

È sempre del giorno dell’Epifania l’uscita di un documento di papa Francesco con cui indica gli orientamenti e le nuove norme per la riorganizzazione/riforma del Vicariato di Roma: la costituzione apostolica «In Ecclesiarum communione».

Così un passaggio e un’espressione inusuale del testo sull’identità ecclesiale mi ha ricordato proprio la molteplicità radicata e in relazione del rizoma, che non ha centro su sé stesso ma fa riferimento all’altro da sé: l’identità ecclesiale: «una trama sacramentaria».

Trama deriva dal latino “trameare”: passare al di là, oltre, oltrepassare. È ciò che esprime il sacramento, segno di una presenza che non è solo o tutta nel segno; non si esaurisce in esso, ma rimanda oltre invitando a instaurare una relazione, a farsi erranti verso un’ulteriorità che chiama fuori a vivere una relazione.

Il volto è sacramento di tutta la persona che manifesta e nasconde insieme la realtà dell’altro; senza iniziare un cammino si rimane in panchina come spettatori. «Per comprendere l’identità della Chiesa, anche della Chiesa di Roma, è necessario riconoscere la sua “trama sacramentaria”, cioè il suo essere riferita ad altro da sé… Torniamo così alla lezione dei Padri che, guardando all’esperienza dell’esodo e dell’esilio, leggono la necessità per la Chiesa di essere come la tenda mobile nel deserto, da smontare, rimontare e “allargare” lungo il cammino (cfr. Is 54, 2)».

«Non si emettono parole nell’aria»

Guardare la realtà e abitarla cercando il mistero al suo interno per esprimerlo in presenza di tutte le lingue del mondo. Scrive Glissant: «Parlo e soprattutto scrivo in presenza di tutte le lingue del mondo… Ma scrivere in presenza di tutte le lingue del mondo non vuol dire conoscere tutte le lingue del mondo. Vuol dire che, nel contesto attuale delle letterature e del rapporto fra la poetica e il caos-mondo, non posso più scrivere in maniera monolingue.

Vuol dire che la mia lingua la dirotto e la sovverto non operando attraverso sintesi, ma attraverso aperture linguistiche, che mi permettano di pensare i rapporti delle lingue fra loro, oggi, sulla terra – rapporti di dominazione, di connivenza, d’assorbimento, d’oppressione, d’erosione, di tangenza, ecc. – come il prodotto di un immenso dramma, di un’immensa tragedia cui la mia lingua non può sottrarsi. Di conseguenza non posso scrivere la mia lingua in modo monolinguistico; scrivo in presenza di questa tragedia, in presenza di questo dramma» (Poetica del diverso, Meltemi, Roma 1998, 33.

Credo che così debba essere pure per lo stile del linguaggio pastorale e teologico: un’apertura verso linguaggi altri. Occorre ritornare a mettervi dentro il mistero del sensus fidei dei credenti e dei viventi accomunati nel segno di una pluralità di migrazioni e intessuto con le loro situazioni esistenziali.

Oggi abbiamo bisogno che l’immaginario della fede in cui si declina e coniuga la riflessione teologica e pastorale vada cercato abitando tutti i linguaggi, credenti e non; una riflessione teologica non sistematica, autreferenziale, ma induttiva, relazionale come le confluenze, le intersezioni, i chiaroscuri di una vita in un arcipelago.

È significativo che alla domanda come dovrebbe essere una teologia della migrazione papa Francesco risponda che se vuol essere tale deve essere “situata”: «tante volte abbiamo visto i mari trasformati in cimiteri di vite e storie, di sogni e aneliti di una vita dignitosa, e ci siamo uniti in preghiera, lavoro e presenza per far fronte all’indifferenza e creare ponti di fratellanza.

La migrazione, così tipica della condizione umana, è anche espressione feroce delle disuguaglianze. Il nostro impegno con i migranti deve essere a sua volta propiziatorio di una pedagogia della cura, del rispetto per il prossimo, in definitiva, di una proposta creativa e creatrice di una genuina cultura dell’incontro dove imparare a riconoscerci e a trattarci come fratelli», (Prefazione di Papa Francesco al libro «A Theology of Migration: The Bodies of Refugees and the Body of Christ», di Daniel G. Groody, Orbis Books, Maryknoll NY 2022).

Un triplice abisso

Una barca aperta sull’ignoto: è questa l’immagine con cui Èdouard Glissant descrive la tratta degli schiavi: «La Tratta passa per la stretta porta della nave negriera, la cui scia imita la “reptazione” della carovana nel deserto: “L’agghiacciante abisso, tre volte annodato all’ignoto”.

«Ciò che lascia impietriti, nell’esperienza degli africani deportati verso le Americhe, è senz’altro l’ignoto, affrontato senza preparazione né sfida.

La prima tenebra venne dall’essere strappati al paese quotidiano, agli dèi protettori, alla comunità tutelare. Ma questo è ancora nulla. Anche quando fulmina, l’esilio si sopporta. La seconda notte venne dalle torture, dalla degenerescenza dell’essere, portata da tante incredibili geenne.

Immaginate duecento persone ammucchiate in uno spazio che a malapena ne avrebbe potuto contenere un terzo. Immaginate il vomito, le carni lacerate, le frotte di pidocchi, i morti accasciati, gli agonizzanti marcescenti. Immaginate, potendo, l’ebbrezza rossa delle uscite sul ponte, la rampa su cui inerpicarsi, il sole nero all’orizzonte, la vertigine, quell’abbacinamento del cielo appiattito sulle onde. Venti, trenta milioni, deportati per due secoli e più. Il logoramento, più sempiterno di un’apocalisse. Ma tutto questo è ancora nulla.

L’agghiacciante viene dall’abisso, tre volte annodato all’ignoto.

La prima volta, quindi, inaugurale, quando cadi nel ventre della barca. Una barca, secondo la tua poetica, non ha ventre, una barca non inghiotte, non divora, una barca si muove a cielo aperto. Il ventre di questa barca invece ti dissolve, ti scaglia in un non-mondo in cui gridi.

Questa barca è una matrice, l’abisso-matrice. Generatrice del tuo clamore. Produttrice inoltre di ogni futura unanimità. Perché, anche se sei solo in questa sofferenza, condividi l’ignoto con altri che ancora non conosci. Questa barca è la tua matrice, uno stampo, che però ti espelle. Incinta, tanto di morti quanto di vivi sospesi a una morte differita.

Così la seconda voragine viene dall’abisso marino. Quando le regate danno la caccia alla nave negriera, la cosa più semplice è alleggerire la barca buttando a mare il carico, zavorrato di palle di ferro. Sono i segni di una pista sottomarina che va dalla Costa d’Oro alle isole Sottovento…

L’aspetto più gorgoneo dell’abisso è proprio, ben oltre la prua della nave negriera, quel pallido rumore di cui non si sa se sia nube foriera di tempesta, pioggia, piovisco o fumo di un fuoco rassicurante. Ai due lati della barca sono scomparse le rive del fiume. Che fiume è mai questo, privo del centro? È unicamente un avanti tutta? Questa barca non voga forse per l’eternità ai limiti di un non-mondo, che nessun Antenato frequenta?

La terza incarnazione dell’abisso proietta quindi, parallela alla massa d’acqua, l’immagine capovolta di tutto quello che è stato abbandonato, che per generazioni non si ritroverà se non nelle savane azzurre, sempre più consunte, del ricordo e dell’immaginario» (Poetica della Relazione, 19-20).

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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