Opulenza e miseria, l’insostenibile diseguaglianza del mondo
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L’ultima in ordine di tempo è stata Barilla, ma quella di farsi ciascuna la propria fondazione rivela una tendenza ormai ampiamente diffusa fra le grandi imprese. E testimonia un paradosso di questa nostra “modernità”: da una parte ci sono Stati ed enti pubblici privi di risorse e indebitati sino al limite del fallimento (qualcuno anche oltre il limite, come le cronache segnalano); dall’altra, realtà private così opulente da potersi permettere di creare strutture senza scopo di lucro, come appunto le fondazioni. Per qualcuno la scelta della fondazione rappresenta un sincero slancio filantropico che scaturisce dalla coscienza dell’ingiustizia insita in una distribuzione delle risorse mostruosamente squilibrata, a causa della quale all’enorme accumulazione appannaggio di pochi, corrisponde indigenza e miseria di tanti.
Per altri, meno nobilmente, si tratta invece essenzialmente di escamotage per alleggerire il peso dell’imposizione fiscale, o per creare una positiva immagine di sé e trarre da ciò un utile ritorno in termini di mercato, o ancora per condizionare le scelte di attori pubblici (politici, giornalisti…) orientandone l’azione e il giudizio, con la lusinga e il sapiente utilizzo della leva dei finanziamenti che la fondazione può decidere di erogare o non erogare a favore di questo o di quello, secondo i “meriti”. In questi casi l’impresa utilizza la fondazione come ‘arma’ impropria o strumento di pressione a proprio vantaggio.
In ogni modo, anche nella fattispecie del benevolo e disinteressato contributo, si assiste allo stravolgimento della corretta dinamica pubblico-privato. Il privato è infatti posto in condizione di accumulare smisuratamente ricchezze e potere sino a creare condizioni di dipendenza dei soggetti pubblici dalla propria munificenza.
Succede così, e lo vediamo ogni giorno, che per garantire servizi essenziali in ambito sociale, culturale, urbanistico, ormai anche socio-sanitario (la base del welfare), sempre più spesso Comuni e altre istituzioni di rappresentanza dei cittadini debbano fare appello ai privati ed elemosinare quelle indispensabili risorse che gli enti pubblici ormai non hanno più nella loro disponibilità.
I dieci uomini più ricchi al mondo complessivamente dispongono di oltre 500 miliardi di dollari. Non se la passano male neppure i dieci italiani più ricchi, con i loro 90 miliardi.
Consideriamo che recenti dati Istat hanno rivelato come in Italia il 5 percento della popolazione detiene un quarto del reddito nazionale, mentre un italiano su due è costretto a vivere con appena 15mila euro all’anno. Un italiano su due!
Negli Stati Uniti va pure peggio: l’un percento più agiato controlla addirittura un terzo della ricchezza complessiva del Paese, circa 57mila miliardi di dollari, mentre l’80 per cento della popolazione si spartisce il 7 percento appena del reddito.
Sono accettabili simili livelli di concentrazione delle ricchezze e squilibri così vertiginosi? È possibile ed è ancora tollerabile che singoli individui abbiano personalmente più ricchezze di quante ne ha un intero Stato? Non è di fatto – questa – la prova di un regresso della nostra “modernità” a una condizione di barbarie feudale, in cui i signorotti affamano il popolo e possono nella sostanza disporre di ognuno a proprio piacere? Il tutto, peraltro, ammantato da un viscido velo di infingimento, che sbandiera concetti come libertà e democrazia…
Ma di quale libertà godiamo, realmente, oggi? In che misura siamo davvero in condizione di autodeterminare le nostre scelte? E possiamo davvero stimare ‘democratico’ il sistema che ci governa, se non solo la partecipazione popolare è ormai scesa ai livelli minimi, ma persino la possibilità stessa dei governi di compiere scelte autonome, coerenti con il mandato ricevuto, è sostanzialmente compressa e condizionata da poteri esterni, orientati a logiche economicistiche e asserviti agli interessi del capitale, della finanza e degli oligopoli industriali?
Sono domande – queste – tutt’altro che astratte. Riguardano la nostra vita presente e il nostro futuro. E impongono risposte chiare, scelte mature e azioni conseguenti.
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Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
PAESE REALE
di Piermaria Romani
Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it