Quella cosa chiamata città /
IL BRASILE, LA FORESTA E LA CITTÀ DEI COLONIZZATORI
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Quella cosa chiamata città. IL BRASILE, LA FORESTA E LA CITTÀ DEI COLONIZZATORI
Ailton Krenak sostiene che il mito della sostenibilità è ormai una narrazione creata dalle aziende capitaliste (o di cui se ne sono appropriate) per conquistare i consumatori con l’idea che ciò che si consuma è prodotto in modo sostenibile, ma è una bugia.
L’acqua della fonte che sgorga nella foresta è straordinariamente buona, la grande azienda che la commercializza in tutto il mondo è in regola con i requisiti di sostenibilità previsti dalle legislazioni, ma siamo certi che è sostenibile prelevare quest’acqua, in questo luogo e commercializzarla ovunque?
L’idea della ancestralidade introdotto da Krenak (filosofo brasiliano di origine amazzonica) è un pensiero indigeno che contrasta con quello della sostenibilità, e si basa sulla constatazione che le nostre vite lasciano troppe tracce e quando una cultura ne lascia troppe è insostenibile, al contrario di un uccello che quando vola in cielo, un istante dopo, del suo passaggio non rimane traccia.
Krenak quando parla di “vita selvaggia” pone l’attenzione sulle condizioni di esistenza di culture altre, di poetiche dimenticate dai processi di globalizzazione e di sviluppo, che hanno sempre favorito il pensare che non potessero esistere delle forme di civilizzazione al di fuori dai modelli della razionalità occidentale.
Un corollario di questa affermazione ci porta a pensare che tutto ciò che è dentro le città rappresenta una forma di progresso civile, controllata da regole non sempre condivise, mentre il resto è barbarie, è vita primitiva. In ciò che rimane delle foreste del mondo vi sono comunità portatrici di altre forme di razionalità e di adattamento al contesto e all’ecosistema. Circa 1,6 miliardi di persone tra cui oltre 2.000 culture indigene vivono delle foreste, a cui è legata la loro economia e il loro benessere. Non si tratta dei disboscatori.
La “vita selvaggia” riguarda quelle che Philippe Descola definisce le tribu-espèce che in Amazzonia stabiliscono nel loro ambiente di vita un rapporto con le comunità “non umane” non diverso da quello stabilito con le comunità umane. Quelle comunità che noi definiamo selvagge e povere, e che Descola definisce “animiste”.
Per noi europei “razionalisti”, gli umani sono una specie che esprime una conscience reflexive, che ci porta a distinguerci dalle altre specie naturali, mentre per i popoli “animisti” è il contrario e quindi anche le specie animali, non umane, hanno una loro interiorità, ma si distinguono per la loro fisicità che li porta a stabilire rapporti particolari e distintivi con l’ambiente naturale nel quale vivono.
L’ipotesi è verosimile perché ogni specie, quindi anche quelle umane, intrattengono un rapporto particolare con la natura: di integrazione e adattamento per le tribù animiste, in quanto si considerano parte della foresta, di sfruttamento da parte nostra perché ci consideriamo portatori di una civiltà superiore e dominante.
I modelli urbani che il capitalismo neoliberista cerca di imporre oggi nel global south, si basano su stili di vita occidentali, dove emerge il divario tra poveri e ricchi. Ma spesso l’idea che noi abbiamo della povertà è conseguenza della nostra parziale (ma potente) visione del mondo, come ci rammenta la giornalista brasiliana Eliane Brum.
Noi “bianchi” abbiamo l’ossessione di ritenere che tutte le storie inizino con il nostro arrivo. La giornalista brasiliana racconta, in un libro dedicato all’Amazzonia, del suo dialogo con i nativi (popoli-foresta) di una zona della grande foresta, che furono espropriati della loro terra, dove vivevano da secoli, per costruirvi delle centrali idroelettriche.
Queste persone che vivevano in interazione diretta con la loro madre terra, di cui erano una delle componenti naturali, non si erano mai sentiti poveri, ma hanno scoperto di esserlo, quando di forza sono stati prelevati dalle loro terre e messi negli alloggi precari costruiti ai margini nella nuova “città” fondata per sfruttare economicamente la foresta.
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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
PAESE REALE
di Piermaria Romani
Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it
Grazie professore. Riflessioni non tanto nuove ma che meritano di essere aggiornate. Vengo da un quartiere di sottoproletariato ed ero felice. Mi sono accorta di essere povera e sgradita quando ingenuamente mi sono iscritta al liceo classico. Traumatico. Ma per fortuna mi ha dato condapevolezza