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“Mi chiamo Narcisse Nsame, vengo dal Camerun, vivo a Ferrara da 3 anni. Studio Scienze della comunicazione, mi appassiona molto. Prima, studiavo Giurisprudenza nel mio Paese, ma quella non era la mia strada.” L’italiano lo parla bene ormai, salvo qualche verbo coniugato male (ma li sbagliamo anche noi) e le idee sono chiarissime. Ha zigomi sporgenti e un sorriso che viene fuori quando parla della sua terra: l’Africa.
“Ma tu qua come ci sei finito?” gli domando, mentre ci dirigiamo in un’aula vuota per fare quattro chiacchiere come due amici qualunque. “L’Italia in Camerun è molto conosciuta: i due Paesi collaborano attivamente da un punto di vista istituzionale e accademico: difatti, è in atto una cooperazione internazionale tra le vostre e le nostre università. Prima di venire in Italia, lavoravo ad un progetto molto conosciuto nella mia città, Dschang (sita nella regione ovest del Camerun): attraverso Pipad (Progetto integrato per l’autosviluppo), così era denominato, sostenevamo a distanza donne e bambini colpiti dall’Aids e spesso abbandonati da mariti e padri. A sua volta, Pipad era appoggiata da un’associazione italiana, l’Anlaids Onlus di Roma: in questo modo, ho avuto l’occasione di lavorare con medici, infermieri italiani e di conseguenza di studiare l’italiano per superare gli ostacoli comunicativi tra noi e loro, poi ho continuato anche perché mi piaceva come lingua. Una volta migliorato, riuscivo ad avere più dialogo con i medici, a capire qualcosa di più sulla cultura italiana ed è da qui che è nato il desiderio di venire in Italia.”

L’Italia non è un punto di arrivo, mi spiega, anzi, è un punto di partenza. “Sono qui per conoscere e avere nuove competenze. Voglio riportare in Africa tutto ciò che sto imparando ora e nei posti in cui mi trasferirò in futuro”. Ha parole sincere per il nostro Paese, che gli piace, ma a metà. “Qui, tante cose mi soddisfano, ma tante altre non mi piacciono. Ti posso dire che la prima cosa che mi ha colpito è l’opportunità di studiare. Non c’è questa possibilità in Africa. Nonostante la crisi, il governo italiano ti offre una borsa di studio, ti spinge ad andare avanti, ti incoraggia. L’accoglienza è un altro punto a favore dell’Italia. Penso a Lampedusa, al Sud, a quello che sta capitando lì. Ci sono clandestini che hanno attraversato il mare giungendo in Italia: ho visto gli sforzi di quelle persone che si sono impegnate per dare una mano a tutti coloro che erano in difficoltà, a seppellire i morti, trattarli come esseri umani, vedere la vita tutelata. Ho la fortuna di essere in vita, ho preso la via giusta per arrivare in Italia.”

Quando parla dei punti deboli del Belpaese è altrettanto diretto, anche se parlare di razzismo non è così semplice per lui: “La parola razzismo fa male, ma se dobbiamo parlarne, non lo considero un problema sociale, bensì un qualcosa che va oltre, a cominciare dalla politica ad esempio. Sentire un ministro – non voglio fare nomi – affermare che gli immigrati rubano il lavoro agli italiani, crea un motivo per radunare il popolo dietro di sé attraverso il razzismo. Il razzismo va oltre quello che vediamo. La concezione mentale che ognuno di noi ha di questo problema è basata sull’apparenza: se una persona è nera, di conseguenza è malvagia solo per il colore della pelle. Per conoscere qualcuno bisogna conoscere la persona, passare del tempo con lei per capirla invece di giudicarla e condannarla prima del tempo.” Il tono della sua voce aumenta, le vene del collo si ingrossano, comincia a gesticolare: “Se si riconosce che una persona di colore, un ragazzo nero – come sprezzantemente ci chiamano – possiede la ragione, il criterio del colore non ha rilievo. Ci sono quattro razze: bianca, nera, gialla e rossa. Il razzismo ha fatto sì che ora ce ne siano solo due: nera e bianca. Non riesco a capire perché non possiamo essere equiparati ai bianchi: forse perché non possiamo studiare? forse perché non riusciamo ad apprendere? o perché non siamo in grado di ragionare? Dobbiamo porci tutti sullo stesso livello, abbiamo anche noi una ragione”.
Non pensavo che il termine nero fosse così discriminatorio, Narcisse mi ha aperto gli occhi e mi suggerisce, “Chiamateci africani! Se io andassi in Francia, come potrei chiamare un cittadino di quel Paese? Francese! Allora se io vengo dal continente africano, perché non puoi chiamarmi africano? Sono fiero di esserlo e niente può cambiare questa mia origine, nemmeno il razzismo. Le diversità culturali sono necessarie per giungere ad un mondo etico, con più uguaglianza. Non tutti gli africani si comportano bene, questo lo so, come succede in qualsiasi altra etnia. Sono sicuro che il giorno in cui capiremo che la diversità culturale può essere un motivo di vanto, una ricchezza da sfruttare per il benessere generale dell’intera comunità, cadranno i veli della divisione, non esisteranno più frontiere tra la gente. Se nella democrazia è riconosciuto il diritto di appartenenza ad una cultura diversa dalle altre, perché non è lo stesso per il continente africano che viene sempre condannato e sottoposto a pregiudizi? Qui da voi non ho respinto la cultura italiana e non ho nascosto la mia, ma finché non ci togliamo dalla testa certe cose, non cambierà nulla.” Parla con impeto, forse anche rabbia, ma lo fa con rispetto: “siamo tutti essere umani” mi ripete.

Decido di riportare la conversazione su binari più tranquilli, gli chiedo cosa gli manca dell’Africa; l’espressione ora è più distesa, i suoi occhi lucidi cambiano direzione, sembra la veda lì, in quell’aula, la sua terra: “I miei genitori, i miei familiari, la mia gente. L’aria. Il profumo della cucina africana. Anche il fuoco a legna, soffiarci sopra per alimentarlo e cucinare in modo un po’ più spartano. Il mais, per esempio, lo facciamo girare davanti al fuoco, questo mi manca. Vorrei tornare a pescare, ritirarmi in campagna, non stare in città. Ci sono ancora foreste vergini nella mia terra, in cui ritirarsi per trovare pace. Vorrei riposarmi, riappropriarmi della mia cultura.” E’ un’escalation di emozioni, un ricordo sempre più vivo nella sua testa: “Mi manca la mia gente. Qua vivo un po’ più in solitudine. Siamo più fraterni fra di noi, in Africa. Se tornassi, potrei andare ovunque: da un amico o un familiare, un posto dove dormire lo troverei sempre. Qua percepisco distanza fra le persone, anche fra italiani e italiani. Siete vicini di banco, ma fuori dall’aula non vi salutate. Da noi non esiste. Sono ancora in contatto con miei amici delle medie e delle superiori, anche grazie ad internet, come se il tempo non fosse mai passato… se li incontrassi per strada li saluterei, ci fermeremmo e ci chiederemmo veramente “come stai?”. In un ambiente capitalista, come l’Italia, ognuno si occupa delle sue cose e basta.” Come non dargli ragione.

Mi racconta che c’è un’Africa giovane, che lotta, alza la testa per provare a scrivere un futuro migliore, ma qualsiasi cambiamento “deve avvenire con il cuore perché non bastano i finanziamenti, bisogna interessarsi per tutti, non solo per un tornaconto personale.” Torna a parlare con un tono più acceso “l’Africa, nell’insieme, lotta. A dire il vero, quando guardo l’Africa, sono sicuro di una cosa: se gli altri guardassero l’Africa con i miei stessi occhi, capirebbero che da una parte, il continente da cui provengo è all’origine di tutto quello che succede, ma dall’altra parte, noi suoi abitanti siamo impotenti. Abbiamo fatto degli sforzi enormi nel passato per rimanere uniti, come regione e continente, ma esiste un problema di mentalità, l’unico motivo di divisione tra gli africani. Una mentalità che non so dove sia nata: ognuno vede prima di tutto i suoi interessi. Prendiamo l’esempio dei cinesi, o degli arabi: sono molto solidali fra di loro. Ognuno cerca suo fratello per sviluppare le proprie attività. Sono uniti. Ma quanti africani si comportano così? Vivendo qua, facendo ricerche, i miei occhi si sono aperti, poco a poco. Se un popolo vuole cambiare, deve cominciare dalla sua mentalità: è per questo che siamo considerati i fautori della nostra situazione. Il capitalismo occidentale ha certamente influito sulla mentalità africana. Anche i governanti prendono la politica come qualcosa di personale, non per il popolo. La politica è condizionata dalle lobby, dall’estero, dai governi stranieri, dalla loro determinazione nello sfruttare le risorse naturali dei Paesi africani.”

Di colpo, la rabbia si trasforma in amarezza “Non so se i popoli africani abbiano la possibilità di ricavare dalle materie prime, ecco da dove vengono i problemi. Rimpiango molto la mia Africa oggi, perché ovunque c’è guerra. Non c’è Paese in cui tu possa stare tranquillo: se non c’è la guerra, c’è la fame; se non c’è la fame, c’è la sete; se non c’è la sete, ci sono le malattie. Da dove arrivano? Com’è possibile che un Paese così ricco non riesca a svilupparsi? Quali sono le politiche che sono state attuate per un’indipendenza economica, politica, sociale? Come si fa a non essere liberi di sfruttare le proprie risorse per sollevare il tenore di vita del proprio Paese? È il mondo intero che deve farsi queste domande, non solo l’Africa. La mia terra non ha diritto di veto! Non abbiamo che occhi per piangere perché subiamo solo e siamo sottomessi a decisioni di cui non abbiamo preso parte. Cosa abbiamo fatto per meritare questo? Quante persone sono emigrate? Milioni di persone. E quali sono stati i ricavi? Tutte le risorse, dove vanno? I diamanti, il petrolio, l’oro e gli altri minerali! Abbiamo terre coltivabili e acqua potabile, perché non la sfruttiamo? In Italia ci sono macchine che possono coltivare anche in zone misere. Chi finanzia le guerre e chi vende le armi in Africa? Le malattie da dove arrivano? L’Ebola, è risorta, era stata combattuta 30 anni fa! Gli africani continuano a morire, gli occidentali tornano a casa loro e ritornano in forze.” Ha un sacco di domande per la testa, me le sputa fuori come se si stesse liberando di un male che gli rode dentro. Conclude con la speranza in un futuro migliore e un appello a chi lo leggerà: “Se qualcuno avesse in mente che gli africani non fanno niente per risollevare questa loro situazione, sappia che non ha capito niente. Ci sono africani che riflettono molto, ma mancano loro i mezzi per poter realizzare i propri progetti. Non ci sono fondi, non si riescono a concretizzare le idee. Anche io vorrei tornare, dopo aver compiuto un’esperienza professionale in giro per l’Europa. Vorrei creare un’attività per dare posti di lavoro nel sociale. Io sono sicuro di una cosa: il fatto di aver vissuto nella paura, di essere sempre dominati dall’estero ci ha fatto male, ma oggi gli sforzi confluiscono per cambiare le cose. Fortunatamente siamo ancora liberi di riflettere, di prendere in mano i nostri problemi: il cambiamento non deve partire da un altro, ma da noi stessi. Non c’è una prova per giustificare quello che sto dicendo, ma il tempo ci dirà da che parte stiamo andando. Noi abbiamo una storia da scrivere e deve essere più positiva per l’Africa”.

Sono le 18, il sole è ancora alto, me ne vado come un pugile suonato. Ho perso il match. L’Africa forse, ancora no…

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Alessio Pugliese


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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