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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


A differenza di Roma, dove sabato nei ventisette cinema in cui si proiettava Mia madre di Nanni Moretti tutti i posti erano esauriti, la risposta ferrarese non sembra così calorosa. Alle mie appassionate dichiarazioni che si sforzavano di dimostrare che ci si trovava di fronte a un capolavoro, le risposte sono state tiepide: “è troppo intimista”, la più ovvia e la più scontata. Altrettanto scontata l’altra risposta: “non m’interessa” (detto con fare mondano) “è il solito film di un comunista”. D’altronde si è ben compreso – testimoniano le dichiarazioni del vescovo di Ferrara Negri che individua nel ’68 l’origine di tutti i mali della società (e senza ombra di dubbio Moretti e la sua visione dell’arte nascono dal ’68) – che un film come questo, anche se tecnicamente può considerarsi un’opera eccezionale, calibrato com’è tra uno sguardo sul mondo del lavoro (tema del film che la protagonista-regista Margherita, alter ego dell’autore sta girando), la malattia della madre e l’autoprivazione, l’angoscia, il mancato rapporto con l’altro che evidentemente è la condizione esistenziale di Moretti e della sua poetica, produca in una città come Ferrara un disagio che è comprensibile solo con la nostra storia intellettuale e culturale. Almeno questo mi sembra sia un’indicazione da avanzare pur nei limiti di un giudizio personale.
Il tutto va ricondotto a quel principio, mai smentito, della predisposizione nella nostra città a dimenticare in fretta, di essere comunque all’affannosa ricerca del nuovo, prossimo venturo, senza fondarsi sulle solide basi di un passato che pur recente dovrebbe rimanere come testimonianza e come ricordo. Sembra una vita fa, eppure Ferrara è stata la sede degli esperimenti più audaci: ad esempio in campo teatrale o artistico. Ma queste esperienze sono state travolte ben presto dalla volontà di una normalizzazione che da una parte consacra l’ideologia di sinistra come irrinunciabile e dall’altra la sclerotizza in clichés molto vicini a quelli della borghesia che sembrerebbe essere stata il nemico di classe e che invece è quella che, nel bene e nel male, ha permesso e di svolgere un ruolo sperimentale e innovativo della cultura. Così l’impossibilità di abbandonare schemi mentali anche di grande intelligenza ma di scarsa capacità di condivisione che il film esibisce, grazie alla superba capacità registica di Moretti, induce a raffrontare lo scarso appeal che per ora il film suscita confrontandolo e mettendolo in rapporto con la spaventosa stagione storica che stiamo vivendo. Sembra quasi che vi sia una oggettiva impossibilità di uscire da una certa sonnolenta reazione di fronte a tragedie storiche (e anche quella descritta in “Mia madre” è una tragedia) che non ci fanno indignare se non più di tanto rispetto alle notizie che ci schiaffeggiano la coscienza, che ci giungono dal mare dove si consumano l’ingiustizia e la barbarie che colpiscono i migranti. Se riusciamo a sopportare che una rappresentante della politica di destra, la signora Santanché, dica “Bisogna affondare i barconi. Non ci sono altre soluzioni. Meglio un atto di guerra che perdere la guerra” e nel prosieguo della dissennata filippica, insiste la dama, sarebbe compito della “nostra” Marina o della “nostra” Aviazione operare in tal senso! O che il signor Salvini sostenga che Renzi avrà sulla coscienza queste morti, allora capiamo come il giudizio comune stia mutandosi in una pericolosa incapacità di comprensione e una trionfale esibizione dell’egoismo più bieco a cui purtroppo s’accodano milioni di “itagliani”.
Sembrerebbe non esserci rapporto tra il giudizio sul film e questi biechi atti di populismo immondo; ma forse anche se, ripeto, si tratta di una valutazione personale, sono intimamente persuaso che la lettura del film non sia del tutto intesa da chi voglia e debba accettarlo come una puntuale riflessione su una stagione, sui compromessi, delle nostre responsabilità e perciò che ognuno di noi si trovi in effetti così impreparato da non reagire, se non con imbarazzo, a una denuncia forte e implacabile come quella che Moretti propone. Allora, forse, anche nelle persone più libere mentalmente e tra queste non mi escludo, si crea un clima di sospettosa attesa, di disagio, di vergogna interiore nel non saper rispondere alle prospettive esibite da questa tremenda stagione politica e nello stesso tempo dall’implacabile e amara constatazione che Moretti propone di una tragedia familiare e sociale.
Riconosco che è una tesi estrema; ma molto spesso anche nella esagerazione c’è un principio di verità. A caldo avevo affidato il mio giudizio sul film a un commento su Facebook che mi sembra avere ancora una sua validità.
Il regista l’aveva preannunciato che ai libri di sua madre, valorosa docente nei licei romani, non avrebbe rinunciato e, se per ragioni di scenografia, Moretti non ha potuto girare nell’appartamento di sua madre, ma i libri, quelli veri che ha usato e amato li ha voluti nel film. Una delle scene più belle è quando la mano di Margherita li accarezza. C’è tutto l’amore per la fragile bellezza di quei volumi che contengono e rivelano un passato che deve diventare la dignità per il futuro. E così Livia, la figlia adolescente della protagonista, accetta di studiare il latino con i libri suoi e della nonna: un sentimento che si fa ragione e intelligenza. Se devo pensare a cosa voglia esprimere quel film, lo penserei come la banalità o meglio l’ovvietà della vita che diventa eroismo; la vita di tutti i giorni che si dimostra degna di essere vissuta: anche nel dolore che non è disperazione, anche nel grottesco che diventa serietà così finemente disegnato dal meraviglioso personaggio di Turturro.
La risposta giusta alle miserabili parole dell’agente Tortosa che per mille volte ancora sarebbe entrato, condannato a una coazione che è disagio mentale e violenza, alla caserma Diaz per compiere un dovere. Quel dovere che si auspica malvagiamente sia necessario debbano svolgere le nostre forze militari per bombardare le carrette degli immigrati secondo le digrignanti parole della regina di Biancaneve: la nostra parlamentare Santanché. O l’altro, munito di felpa, Salvini.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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