Vite di carta
Khaled, Hosam, Mustafa: “Amici di una vita” nell’ultimo romanzo di Hisham Matar
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Vite di carta. Khaled, Hosam, Mustafa: Amici di una vita nell’ultimo romanzo di Hisham Matar.
Ho portato a termine la lettura di Amici di una vita dopo cinque mesi dall’averlo golosamente acquistato in quel di Mantova. Mai libro fu stigmatizzato come questo: dalla firma con dedica dell’autore e dal biglietto di ingresso all’evento di Festivaletteratura in cui Matar ha conversato con Paolo Giordano, biglietto che ho spillato alla quarta di copertina in fondo al libro.
Dell’evento ho già brevemente scritto su questo giornale nell’articolo dedicato alla edizione 2024 del Festival, soffermandomi sul termine esilio e sul valore che Matar gli assegna anche quando si riferisce alla scrittura. Ho detto che l’affermazione di Matar mi è rimasta attaccata a lungo, e a lungo ho ripensato a come nello scrivere entriamo e usciamo dalle parole per trovarne la giusta distanza dalle cose e metterle a fuoco entrambe. Andare lontano permette di capire, ecco forse dove sta il nesso.
Cinque mesi per mettersi a leggere un testo dalla grande statura come Amici di una vita occorrono anche per altri motivi. Uno, legato alle impressioni della prima lettura, è che si tratti di un libro-miniera da cui ricavare nel tempo il distillato della bella maturità scritturale di Matar.
Un altro, che trovo impellente, dipende dal fatto che “certi libri, come certe persone, sono timidi“. Me ne convinco davanti a questa storia che abbraccia oltre trent’anni di vita dei tre amici partiti dalla Libia negli anni Ottanta durante la dittatura di Gheddafi per andare a studiare e poi fermarsi a vivere a Londra. Scava in profondità dentro di loro per poter raccontare con una audacia piena di riservatezza come l’esilio dal proprio paese li abbia prima lacerati e poi forgiati come uomini.
Dopo molti anni, all’esplodere nel 2011 della Primavera araba, due di loro sentiranno che è il momento di agire e tornare in Libia a combattere per la liberazione dal dittatore. La heimat che è dentro di loro è un magnete potente che li riporta dunque a casa, mentre il solo Khaled, che è la voce narrante delle loro tre storie e dei rispettivi intrecci, resta dentro la sua vita di Londra.
La timidezza del libro sembra dipendere da lui, da quel suo bisogno di posizionarsi e di comunicare col contagocce che non comprerà un biglietto aereo per Bengasi. Si terrà stretto alle abitudini londinesi che già una volta, quando aveva diciott’anni, gli hanno dato consistenza salvandolo dall’esplodere in mille pezzi. Anche il rispetto per la sua scelta, la legittimazione della diversità tra le nature e i temperamenti di loro tre va sotto il temine amicizia.
Nella primavera del 1984 Khaled è stato ferito gravemente presso l’ambasciata libica a Londra, dove era andato a manifestare contro Gheddafi insieme al suo amico Mustafa. Solo molti anni dopo viene a sapere che anche Hosam era lì e si è allontanato in tempo dalla sparatoria. Da quella ferita Khaled ha ricevuto lo stigma che più a fondo gli ha impresso dentro lo spaesamento dalla sua famiglia, dal paese d’origine e da se stesso.
Non a caso il libro è pieno di luoghi di Londra, strade, istituti di cultura e caffè, a cui Khaled affigge giorno dopo giorno i brandelli della sua esistenza. Lo sostengono nel tempo il lavoro di insegnante che trova in una scuola superiore, la confidenza più o meno longeva con alcune figure femminili e soprattutto l’amicizia con Mustafa e anni dopo anche con Hosam, che è stato scrittore e può condividere con lui la passione per la letteratura.
Anche a libri importanti come medicine sono ancorati i punti di forza dello spazio vitale di Khaled. I libri lo tengono legato agli amici a al padre, che in Libia continua la sua vita appartata di studioso e che anche per questo gli manca come una radice piena di linfa.
Quando Hosam e Mustafa vanno in Libia a combattere, i messaggi e le mail con loro e con la sorella prendono la consistenza di un cordone ombelicale che mantiene Khaled legato alla Storia libica. Mentre si tiene legato alla sua storia personale.
Khaled comprende che dentro i lembi delle vecchie ferite all’ambasciata ha ricucito, oltre a un polmone e ai muscoli dorsali, anche la sola possibilità di rimettere insieme i pezzi. Una volta in una vita. Ora non potrebbe rientrare in Libia da un esilio durato oltre trent’anni, non può esporsi al rischio di lacerare l’identità che ha lentamente assemblato. Lo comprende quando dopo un breve viaggio usa la parola tornare pensando al suo piccolo appartamento londinese. L’ha sempre usata per la famiglia e la Libia.
Comincio e finisco con le parole, scrivendo di Matar, vincitore del premio Pulitzer 2017 nella sezione autobiografia e dell’Orwell Prise for Political Fiction 2024. Ho iniziato con esilio e finito con tornare; nel mezzo ho nominato anche l’amicizia e i libri. Su questi ultimi c’è un pagina in cui Khaled parla della strana abitudine del suo amico Hosam: ne possiede pochi, una trentina circa, e nei suoi spostamenti duraturi li porta con sé chiusi in una valigia.
Essere così diversi e tanto amici. Hosam dice a Khaled, e a me anche se non lo sa: “Conosci qualcosa di più deprimente di una parete di libri? Ma so che tu non la pensi così. Sei convinto, come Montaigne, che la sola presenza di libri in una stanza ti coltivi, che i libri non siano fatti solo per essere letti ma per viverci insieme”.
Nota bibliografica:
- Hisham Matar, Amici di una vita, Einaudi, 2024
Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/
Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

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Roberta Barbieri
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