Mi dispiace perché il film di Nanni Moretti non mi è piaciuto. O non mi è piaciuto rispetto alle aspettative che coltivavo. Dovremmo avere la dignità di smetterla con il celebrare i nostri sentimenti. Siamo un Paese che celebra i propri intimismi e intanto se ne va alla deriva. Cerchiamo di appigliarci ad una qualche boccata di ossigeno, mai poi ci avvediamo che anche queste non sono sufficienti per farci riprendere a respirare. Continuiamo a muoverci nell’angusto cerchio dei nostri spazi di vita senza che ne scaturiscano prospettive nuove. Su un altro piano, con altri contenuti, ho provato lo stesso disagio con “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino, anche quello un viaggio dalla vita alla morte. La bellezza del passato, che tanto più risalta rispetto allo squallore del presente. È questo sguardo sempre rivolto in noi stessi e al passato tanto caro ai nostri narcisismi aggrappati a quello che eravamo, una didattica della memoria che nulla ci fornisce per vivere e procedere nel presente verso il futuro. I luoghi comuni del racconto di Moretti, sono appunto comuni perché a tutti appartengono, più o meno scevri dal perbenismo borghese, ma non per questo ci mettiamo a girarci un film. La realtà vera, quella cruda è che la stragrande maggioranza delle persone non se lo può permettere, deve stringere i denti e metabolizzare come può i propri dolori, i propri egoismi, le proprie contraddizioni, le proprie sfortune. “Mia madre” non è un film vero, è un film di caricature, con la pretesa di non esserlo, dalla figura materna a quella della giovane adolescente Livia, fino ad una Margherita Buy, regista dagli occhi sempre arrossati, sempre pronta al pianto. Liceo classico, latino e fabbrica occupata, una umanità sconfitta dal presente che non ha futuro.
Quando accendiamo i fari per raccogliere i nostri stracci e capire con questi come camminare in questo tempo così difficile, come far rifiorire le nostre intelligenze per costruire un domani che non sia solo di rimpianti? Non è che siamo un Paese ormai privo di intelletto, di creatività, di inventiva, capace di osare, di sfidare se stesso? Sono giorni questi di celebrazione della Resistenza, della lotta partigiana, della libertà conquistata, tutto importantissimo, ma sembra che tutto si arresti al non dimenticare, a trasmettere la memoria, perché i giovani la conservino. E poi? Basta. Perché dovremmo essere contenti della democrazia e della libertà che abbiamo. Non è così. C’è ancora tanto da lavorare, da pensare, da ideare, da rilanciare con la forza dell’utopia se vogliamo crescere e avanzare, se vogliamo migliorare, perché ogni giorno ci dimostra che i traguardi della libertà, della dignità umana, di un mondo migliore sono ancora tutti da conquistare. È la spinta a vivere la vita, a sfidarla che ci manca, ci manca l’entusiasmo, l’inventiva, la forza di metterci in discussione, di metterci in gioco, siamo arresi sui nostri cimeli, a ripercorrere la galleria di quello che eravamo.
Il film di Nanni Moretti è il massimo che ci può dare il cinema italiano? Sarebbe davvero deludente. Ma temo che sia il segno di una cultura che non c’è, di un Paese che non c’è, distrutto da una politica che ha assassinato la politica stessa per togliere ogni anima alla cittadinanza delle persone, ogni speranza, ogni passione. Un paese sbandato, quanto distratto, quanto ripiegato sui fatti propri, un Paese che nell’uomo solo al comando, se non si risveglia in fretta, se non smette di continuare a leccarsi le ferite, sta nutrendo tutti i prodomi di un nuovo fascismo, altroché Resistenza. Forse il carattere del tutto particolare assunto quest’anno dalle celebrazioni della Liberazione, vuole esorcizzare proprio questo pericolo, sempre più vicino.
Ma non è più sufficiente, occorre un altro impegno, è necessario capire che ognuno con coraggio deve fare la sua parte, c’è da lavorare tanto, non ci si deve chiamare fuori, dobbiamo cercare di contribuire senza arrenderci. Non ci serve il film di Nanni Moretti, ci serve il film di un’Italia che si rialza in piedi con il realismo di Roberto Rossellini e l’intelligenza trasognata di Fellini.
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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
PAESE REALE
di Piermaria Romani
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