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Il movimento fa bene, me lo dice sempre il mio medico. Devo ringraziare l’Amministrazione della mia città che è attenta alla nostra salute, favorisce il movimento e soprattutto la posizione eretta, invece di stare stravaccati seduti su una panchina, che non è neanche un bel vedere.

Così qualche giorno fa ho assistito al ratto delle panchine. O meglio, all’espianto delle panchine da parte di una benna chirurgica, quasi si trattasse di rimuovere un tumore. Parlo delle panchine di piazza Sacrati, quelle collocate lungo la via Garibaldi, proprio di fronte all’Hotel Carlton. Ci stazionano spesso donne, per lo più badanti, e vecchietti impegnati  in discussioni anche animate; ora dovranno trovare un altro luogo dove parcheggiare i loro sederi (a proposito, questa del sedere deve essere una ossessione di questa Giunta).

Mentre altrove si dipingono di rosso le panchine contro la violenza sulle donne, o con i colori dell’arcobaleno – le panchine rainbow nella giornata contro la omobitransfobia – da noi le panchine si archiviano, si accatastano in qualche magazzino in attesa di tempi migliori.

Troppo moderata la scelta del comune di Udine, che pure fece discutere, di mettere alle panchine i braccioli di ferro per impedire ai migranti di potersi sdraiare e riposare. Da noi vige il metodo Naomo che predilige le scelte drastiche: deportiamo le panchine in appositi campi di concentramento. La persecuzione contro le panchine in questa città ha preso avvio dai parchi, in particolare quelli della zona Gad, quartiere ‘giardino’ … ma senza panchine.

A me le panchine in città ricordano Marcovaldo, ovvero “Le stagioni in città” di Italo Calvino e, in particolare, “La villeggiatura in panchina”. La panchina sognata da Marcovaldo, come evasione dai disagi della quotidianità, come oasi di riposo e di frescura all’ombra degli alberi, come ricerca del silenzio e della riconciliazione con se stessi. Togliere una panchina è come togliere un arredo amichevole e rassicurante della città, l’arredo che ti viene incontro quando vuoi sostare perché sei stanco, quando vuoi fermarti a parlare con qualcuno, all’aria, curiosando chi passa: le cose normali di una vita normale. Una vita sempre in piedi, senza soste per sedere non è una bella vita.e una città senza panchine è un città non accogliente. È come un divieto di sosta per i pedoni senza il cartello rosso e blu.

C’è un bel libro che parla di panchine, è uscito l’anno scorso per la Feltrinelli, “Strategie per contrastare l’odio: una rivoluzione a piccoli passi”. L’ha scritto Beniamino Sidoti, che è uno scrittore e giornalista che si interessa di giochi e di storie. L’autore associa odio e panchine, perché, spiega, chi perseguita le panchine non può che essere animato dall’odio. Anzi, l’attacco alle panchine è un attentato ai diritti civili delle persone.

La cultura non è certo una caratteristica  pregio di questa Amministrazione Comunale, tantomeno la capacità di riflettere e di evitare atti impulsivi. Sidoti ci ricorda che la storia dei diritti civili è passata più volte attraverso il semplice gesto di sedersi e di rimanere seduti, chi non ricorda i sit-in o sit-down della storia, a partire da quelli di Gandhi. Sedersi è un gesto calmo e rivoluzionario insieme, forse è per questo che qualcuno nutre tanti timori. Ma sedersi non è solo un gesto naturale è, soprattutto, un trovare casa.

Questa casa ora la nostra città non ce la offre più, perché per decreto si tolgono le panchine dalle strade, dai parchi e dalle piazze per combattere il ‘bighellonaggio’, con il risultato di minare il nostro sacro santo diritto alla socialità. 

Non vorremmo tornare ai tempi del filò, portandoci dietro ognuno la nostra seggiola per poter godere dell’ombra di un albero o della compagnia degli amici. Sedersi è un gesto di casa, di amicizia e di ospitalità, e questa città è la nostra casa, e casa deve tornare ad  essere per noi che ci viviamo e per chi è solo di passaggio.

Ma se conflitto deve essere, conflitto sia. Organizziamoci. Moltiplichiamo le occasioni per sederci con gli altri, amici e sconosciuti.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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