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Nicola, Elena, Thomas, Luigi, Michele, Esperanza, Nissen, Vivien… sono solo alcuni nomi della tristissima sequenza di bambini uccisi nel nostro Paese, da chi avrebbe dovuto insegnare loro a vivere. Gli ultimi di questi giorni, Giuseppe di Napoli e Alice di Bolzano Vicentino. E poi ci sono i volti senza nome, quei piccoli scomparsi per mano violenta, che non hanno fatto nemmeno in tempo a identificarsi in un nome a cui avevano diritto, ammazzati appena nati, abbandonati sugli scogli, gettati dalle scale o da un balcone, abbandonati tra i rifiuti in un centro di raccolta, come la cronaca ci consegna. Se esiste un’immagine raccapricciante, intollerante, mostruosa, orrenda, è proprio questa; un’immagine che scuote le coscienze e raggela, ma ancor oggi crea imbarazzo e riserve e rimane ancora un enorme tabù, perché l’infanticidio, il figlicidio, è qualcosa di abnorme che va oltre ogni possibilità di immaginazione e trattazione dal punto di vista razionale ed esplicativo. Supera status, condizione sociale, area geografica, da Latina a Como, da Catania a Milano, da Spoleto a Monza-Brianza, da Cagliari ad Ancona e Napoli. Stress, depressione, disagio relazionale familiare, separazione e divorzio, folli vendette, patologie psichiche latenti sempre più diffuse, costituiscono il terreno su cui basano questi atti estremi che noi commiseriamo o condanniamo, per un arco di tempo che ci permetta di tornare alla nostra tranquilla indifferenza, passato il clamore mediatico del momento. L’infanticidio è spesso frutto di una genitorialità difficile e le statistiche ci raccontano come la figura della madre sia la più esposta, nella maggioranza dei casi, al rischio. In molti casi tensioni, profonde incomprensioni mai risolte, desiderio di porre fine a criticità pesanti, covano in silenzio nella vita e nelle dinamiche delle famiglie, arrivando all’esasperazione, alla perdita di aderenza alla realtà, fino a sfociare in drammi che assumono contorni nefasti, prendendo forme distorte. Esplosioni di rabbia incontenibile, disperazione, raptus, incapacità di governare i propri istinti o gli eventi stessi della vita, arrivano all’estremo e generano morte. In alcuni casi ‘l’esecuzione’ raggiunge situazioni che stentiamo a comprendere: si toglie la vita al figlio per pietà, per risparmiargli i dolori che l’esistenza potrebbe riservargli, per salvare la propria creatura, per paura di ciò cui si va incontro. E’ il paradosso dell’accudimento. E’ difficile individuare il numero di infanticidi nel mondo; le stime dell’Oms indicano che il tasso globale di infanticidi tra bambini di età da 0 a 4 anni è pari al 4,5 e 5,8 su 100.000 mentre tra l’età dai 5 ai 14 anni è pari a 2.0-2.1 su 100.000. Cifre poco più che irrilevanti per la statistica ma di enorme significato sotto il profilo umano. Per oltre un quarto, l’omicidio è commesso dalle madri contro bimbi minori di 1 anno ed è impossibile prevederne la realizzazione perché spesso manca una chiara ed evidente patologia psichiatrica e l’azione violenta è l’espressione momentanea di una sorta di black-out della coscienza. Ci impressioniamo oltre modo, pronti a spendere parole di commozione per i fatti che riguardano la nostra epoca ma dobbiamo prendere atto che, da che mondo è mondo, la pratica dell’infanticidio ha schiacciato la dignità e la coscienza umana, con connotati e storia diversi. Nella mitologia greca esistono abbondanti episodi in cui i figli vengono sacrificati alle divinità o al fine del raggiungimento del potere. Saturno-Kronos divora i propri figli dopo che gli è stato profetizzato che avrebbe perso il trono per mano di uno di essi. Solo Giove-Zeus si salva, perché a Kronos viene consegnata una pietra nel fardello, al posto del neonato. Edipo viene abbandonato dal padre per un oracolo funesto e Medea, per vendicarsi del tradimento del suo sposo Giasone, che la ripudia per sposare Creusa, uccide i figli avuti da lui e ne divora le carni. Tra leggenda e storia ci sono anche Romolo e Remo abbandonati al loro destino sulle rive del Tevere, dopo che la madre Rea Silvia venne fatta uccidere da Amulio. Allattati da una lupa, secondo la leggenda, vennero trovati e adottati dal pastore Faustolo. Nell’antica Grecia e in epoca romana la pratica dell’abbandono e la destinazione alla morte riservata ai bambini era pratica che ricorreva spesso in caso di malformazione fisica, nascite da relazione illecita o violenza carnale, per problemi economici di sopravvivenza, per cattivo presagio. A volte i bambini venivano adottati, ridotti in schiavitù, indotti all’accattonaggio dopo essere stati storpiati, destinati alla prostituzione o alla manodopera nei campi. Anche se scampavano alla morte, erano comunque avviati a un destino crudele. Occorrerà arrivare all’epoca di Giustiniano che, con il Corpus Iuri Civilis, nel 529, riconobbe personalità giuridica al bambino che cessò, ma non del tutto, di essere semplicemente oggetto di proprietà di cui potersi disfare senza remore. Non dissimili le pratiche nel Medioevo, quando condizioni ambientali, tentativi di controllo delle nascite e talvolta problemi di divisione del patrimonio determinavano il destino di molti bambini che diventavano oggetto di allontanamento in luoghi difficili e impervi di difficile accesso, destinati alla morte. Nel 1118 all’Ospedale di Marsiglia nasce anche la prima ‘ruota’, un meccanismo che consisteva in un tamburo di legno rotante in cui venivano adagiati e lasciati i piccoli abbandonati, misericordioso tentativo di toglierli alla morte sotto le intemperie o esposti agli assalti di animali. Le ruote si diffusero rapidamente in tutta la Francia, in Italia, Spagna e Grecia ma non trovarono consenso nei Paesi Anglosassoni dove le pratiche conosciute continuarono. Nei secoli successivi il tema dell’infanticidio occupò l’attenzione dei giuristi e teologi diventando materia di discussione e trattazione più diffusa. Nel 700 comparvero le prime sentenze di morte sul rogo o sulla forca per imputazione di infanticidio. Un tragico tema, quello dell’infanticidio, che continua ad alimentare il dibattito sulle condizioni umane estreme, quelle che spaventano, inorridiscono, destabilizzano perché ci mettono davanti alla sfuggevole, mutevole, inspiegabile natura di certe sfaccettature dell’animo umano. L’uccisione di un bambino resta comunque una grande sconfitta di una società impotente a tutelare il diritto alla vita di un esserino e sostenere la fragilità di un adulto. Ogni infanticidio è la perdita di un pezzetto di futuro per tutti noi.

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Liliana Cerqueni

Autrice, giornalista pubblicista, laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. E’ nata nel cuore delle Dolomiti, a Primiero San Martino di Castrozza (Trento), dove vive e dove ha insegnato tedesco e inglese. Ha una figlia, Daniela, il suo “tutto”. Ha pubblicato “Storie di vita e di carcere” (2014) e “Istantanee di fuga” (2015) con Sensibili alle Foglie e collabora con diverse testate. Appassionata di cinema, lettura, fotografia e … Coldplay, pratica nordic walking, una discreta arte culinaria e la scrittura a un nuovo romanzo che uscirà nel… (?).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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