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Ad alcuni il futuro appare denso di promesse, pieno di fascino, il regno della libertà e dell’emancipazione dai vincoli della scarsità; ad altri esso appare oscuro e pericoloso, lo spazio del dominio di forze ignote ed imprevedibili; altri ancora pensano e vivono come se il futuro non fosse altro che la grigia e banale prosecuzione del presente. La storia insegna a non disgiungere mai dal sogno utopico (positivo), l’incubo distopico (negativo), gli scenari positivi da quelli negativi, le opportunità dalle minacce, i ricavi dalle perdite, i beneficiari dalle vittime.
Questa attenzione è necessaria in particolare oggi che, forse per la prima volta nella storia dell’uomo, le tecnologie sembrano consentire la potenziale liberazione dal vincolo del bisogno e la fine del lavoro come attualmente concepito, consentendo dunque il superamento di un modello sociale dove la maggior parte delle persone scambia tempo di vita (dedicato ad un lavoro poco gratificante, svolto per gran parte della vita) con denaro (necessario per acquistare e consumare beni e servizi sempre nuovi). Potenziale liberazione che affascina ed impaurisce: può aprire straordinarie possibilità e grandi spazi di innovazione sociale, diventare la base per lo sviluppo dei talenti, della creatività, di nuovi saperi e capacità; liberare risorse per la ricerca interiore e l’esplorazione del possibile. Ma può anche scatenare la paura, spaventare i molti incapaci di pensare la propria vita senza l’obbligo economico e morale del lavoro, preoccupare i più conservatori preoccupati dai rischi sociali che pensano di vedere dietro a questi possibili sviluppi rivoluzionari.

Fascinazione e paura sono i principi ispiratori di due grandi narrazioni collettiveutopia e distopia, appunto – che hanno accompagnato la riflessione sulla scienza e la tecnologia. Di macchine intelligenti, di robotica e di automazione si parla da molto tempo: l’espressione “fabbrica automatica”, riferita alla tessitura, si trova già nel Capitale e lo stesso termine “robot” (dal ceco ‘robota’ ossia lavoro), inteso come macchinario in grado di svolgere lavoro al posto dell’uomo, è stato introdotto dallo scrittore di fantascienza Karel Capek quasi un secolo fa; il Golem di Praga (un robot per la funzione che svolge anche se non per la tecnologia che lo rende possibile), al quale probabilmente si ispira, è fin dal 1500 metafora inquietante della società della tecnica e dei rischi derivanti dalle azioni irresponsabili degli apprendisti stregoni. L’oscillazione tra ottimismo e pessimismo rispetto agli esiti generabili dalla diffusione delle tecniche e al crescente potere delle tecnologie accompagna la stessa evoluzione storica delle società occidentali per le quali il lavoro è e resta un pilastro fondamentale.

Questa contrapposizione si regge, almeno in parte, sull’ambiguità percepita del termine tecnologia: essa può essere intesa come l’applicazione sistematica del sapere scientifico (costruito con procedure riconosciute come valide) a tecniche e processi che possono rappresentare qualsiasi segmento di ciò che cade sotto il dominio della soggettività, della cultura e della conoscenza. In questa prospettiva dobbiamo dunque parlare di una pluralità di tecnologie, riconoscendo che esse ormai informano ogni campo della vita ben oltre la semplice trasformazione e produzione di oggetti tangibili. Dobbiamo ad esempio riconoscere l’esistenza di raffinate tecnologie centrate sull’arte di influenzare i comportamenti, sul controllo sociale, sull’educazione e la formazione accanto alle più note tecnologie energetiche, biologiche, metallurgiche, etc.

Ogni tecnologia così intesa, cambia il rapporto dell’uomo con il mondo, conferendo maggiore capacità di azione (fisica o simbolica), ma privando al tempo stesso di capacità prima necessarie, che diventano obsolete e vanno perdute. La vecchia capacità di fare viene sostituita dalla nuova capacità di usare un oggetto che incorpora, per così dire, le vecchie capacità; l’estrema conseguenza negativa di questo processo spinto all’estremo è (per i pessimisti) la realizzazione del mito del consumatore perfetto: incapace di tutto se non di scegliere tra un’infinita serie di prodotti e servizi.
D’altro canto il sistema tecnologico nel suo complesso costituisce sempre più un nuovo ambiente di vita che le tecnologie digitali rendono rapidamente intelligente. I robot imparano a muoversi bene negli ambienti non strutturati (quelli della nostra vita quotidiana), mentre gli umani vivono sempre più spesso in ambienti più strutturati, caratterizzati da una sensoristica diffusa che vediamo già applicata nelle case intelligenti (domotica), nelle auto (smart car), nelle città (smart city), nei territori, nelle reti intelligenti (smart grid); il corpo stesso è ambiente per lo studio e l’implementazione di bio e nanotecnologie sempre più raffinate.

Dall’interazione tra tecnologie, persone, culture e società nascono nuove e variegate identità singolari e collettive che si fondano su usi e pratiche che tendono a sfuggire ad ogni forma di controllo: nascono consumi virali, comunità, entusiasmi, mode non meno di reazioni violente, rifiuti, fughe e chiusure. La vera sfida del prossimo futuro non sta dunque nello sviluppo dei processi tecnologici (tecno scienze) che diamo ormai per scontato: risiede piuttosto nel governo dell’interazione di queste con la complessità ambientale, demografica, sociale, economica ed antropologica che riguarda l’intero mondo di cui le tecnologie sono parte e che contribuiscono a modificare profondamente. Il sistema tecnico sempre più integrato che sta diventando la base del nostro modello di vita interagisce con società fatte di persone, di istituzioni, di strutture, di organizzazioni, di poteri, di culture, di ideologie, di economie, di finanza, di conflitti, di movimenti e cambiamenti che contribuisce a generare e ai quali è indissolubilmente connesso. Dove esistono queste relazioni sono in gioco significati, passioni, emozioni, storie ed è in azione anche il potere e, con esso, la certezza della manipolazione. Non stupisce allora che il sogno utopico di alcuni possa essere l’incubo di altri, che la speranza di pochi visionari sia la paura di molti e che l’ambizione modesta e conservatrice della maggioranza risulti intollerabile ai pochi animati da genuino spirito “rivoluzionario”.

Per questo, l’irresistibile sviluppo dell’automazione e della robotica, che di questa rivoluzione sono forse gli aspetti più immediatamente visibili, l’ascesa delle tecnologie genetiche e delle nanotecnologie, la diffusione delle tecnologie dell’educazione e del controllo del comportamento (etc.), lasciano ipotizzare per futuro prossimo più scenari possibili, drammaticamente opposti: inferno o paradiso, trascendenza o involuzione. Malgrado ci sia chi pensa ancora di gestire o dominare il tecno-ambiente con i vecchi strumenti della società industriale, con categorie stantie, con il populismo che si fonda sulla paura, con il fanatismo tecnocratico o religioso, ognuno dovrà presto decidere se accettare la sfida, subirla o rifiutarla.

Un impegno socialmente difficile in tempi nei quali la politica, che dovrebbe esprimere i fini, è diventata un mezzo e l’economia, che dovrebbe essere il mezzo, è diventata il fine; dove l’economia reale è stata messa in completa balia della finanza e la politica anziché lavorare per l’uomo e le generazioni future, produce leggi per aumentare il potere e tutelare gli interessi della finanza globale piuttosto che quelli dei cittadini e delle imprese. Si tratta forse del più chiaro esempio del dominio di una tecnocrazia sulla società o, meglio, sul mondo. La stessa finanza attuale ha preso questa forma (anche) per effetto di discipline dure quali la fisica e la matematica (studio degli algoritmi di calcolo) applicate alle tecnologie digitali che consentono di elaborare enormi quantità di informazioni in frazioni di secondo, connettendo miliardi di grandi e piccoli decisori.

Come sarà la vita nel tecno-ambiente che si sta sviluppando e che si alimenta dell’informazione che forniamo più o meno consciamente (ogni clic un’informazione preziosa)? Cosa potrà fare l’intelligenza artificiale applicata ai giganteschi database che raccolgono ogni tipo di informazione digitale? Come interfacceranno i corpi con questo nuovo ambiente, che protesi tecnologiche useremo tra qualche anno? In questo ambiente diventeremo forse più stupidi ed impotenti o troveremo risorse per evolvere? Come risponderanno persone diverse alle sfide del prossimo futuro?
L’imperativo categorico per affrontare questi dilemmi è quello di non subire passivamente come consumatori ignavi; criticare, opporsi, fuggire, rappresentano soggettivamente opzioni possibili quanto accettare, costruire, sostenere. Sono tutte possibilità che potenzialmente aprono lo spazio all’esplorazione creativa del possibile. Questa compresenza di atteggiamenti e comportamenti differenti e conflittuali, purché in grado di alimentare un sano dibattito, rappresenta una speranza affinché il sistema evolva in termini qualitativi evitando pericolose derive totalitarie. Di certo per vivere umanamente nel nuovo tecno-ambiente servono nuovi saperi e nuove virtù, nuovi comportamenti, nuove responsabilità e nuove consapevolezze.

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Bruno Vigilio Turra

È sociologo laureato a Trento. Per lavoro e per passione è consulente strategico e valutatore di piani, programmi e progetti; è stato partner di imprese di ricerca e consulenza e segretario della Associazione italiana di valutazione. A Bolzano ha avuto la fortuna di sviluppare il primo progetto di miglioramento organizzativo di una Procura della Repubblica in Italia. Attualmente libero professionista è particolarmente interessato alle dinamiche di apprendimento, all’innovazione sociale, alle nuove tecnologie e al loro impatto sulla società. Lavora in tutta Italia e per scelta vive tra Ferrara e le Dolomiti trentine.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

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