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Sembra essere sfuggito, nella kermesse libraria che ormai brucia le novità nel giro di una settimana, la pubblicazione di opere che vogliono far coincidere la Storia morantiana, quella scritta con la esse maiuscola, con la cronaca. Ma a differenza degli anonimi eroi del grande libro (Useppe, la cagna Bella,Ida Ramundo, Nino, Davide Segre) questi romanzi fanno agire i personaggi della Storia – e che della Storia sono stati protagonisti – come personaggi comuni còlti nella loro quotidianità. Si tratti di Antonio Gramsci nella “fantabiografia” scritta dal suo pronipote (Luca Paulesu, Nino mi chiamo, Feltrinelli, 2012) o di Piero Gobetti nel libro di Paolo Di Paolo (Mandami tanta vita, Feltrinelli 2013) dove l’eroe di “Giustizia e Libertà” è messo a confronto con lo studente Moraldo che impara a conoscerlo attraverso uno scambio di valige; e ora ne Il tempo migliore della nostra vita di Antonio Scurati dove la vita e la morte di Leone Ginzburg s’intrecciano e dialogano nel tempo della Storia con le vicende della famiglia Scurati, quella da cui discende l’autore.

Ha lungo ho parlato (e presentato) i due primi romanzi notandone la capacità di mettere in luce un aspetto del “romanzesco” o di riuscire a proporre una nuova categoria del romanzo quasi una rivisitazione di quello storico anche se questa proposta critica non mi lascia del tutto convinto. Già di per sé una breve riflessione va sicuramente condotta sulla parola “vita” che ritorna esplicitamente nel titolo stesso di due dei tre romanzi (Mandami tanta vita e Il tempo migliore della nostra vita), ma che già s’accampa nell’innovativa fantabiografia di Paulesu che parte dalla volontà di comporre e di proporre una vita ‘disegnata’.

Dei tre romanzi quello su cui mi voglio soffermare è Il tempo migliore della nostra vita di Antonio Scurati che complessamente racconta l’epopea di un grande martire della follia nazi-fascista indagandone le pieghe più nascoste nel suo essere intellettuale, marito, padre e come da questo percorso di vita venga individuato e messo in luce un rifiuto calmo e severo alla banalità del male. Avrebbe potuto essere un’agiografia o rinfocolare l’ormai noiosa polemica sulla Resistenza. Ma invece l’autore vuole – e molto spesso ci riesce con esiti davvero notevoli – riproporre quella vita e quella morte come un romanzo di cui è autore e attore. Raccontando il suo destino e la sua scelta di divenire scrittore, Antonio Scurati precisa: “Sei anni prima, nel 2002 avevo realizzato il mio sogno di ragazzo diventando uno scrittore. Intendo dire che un grande editore mi aveva pubblicato il romanzo d’esordio – ancora un tomo di seicento pagine – intitolato Il rumore sordo della battaglia. Ne erano poi seguiti altri, favoriti da un qualche successo, fino a quando in una mattina del novembre 2011, mentre il presidente del consiglio del mio paese era inquisito con l’accusa di favoreggiamento della prostituzione femminile, il Paese era sull’orlo della bancarotta e io progettavo il mio sesto romanzo m’imbattei per caso – si dice così – nella notizia del ritrovamento della lettera di dimissioni con la quale l’8 gennaio 1934 Leone Ginzburg aveva detto il suo ‘no’ al fascismo. Decisi subito che avrei raccontato la sua storia. Mi misi a studiarla cercandovi un anti-veleno alla nostra.” ( pp.238-39).

 

Nel libro si raccontano anche le vicende di coloro che divennero compagni, parenti e collaboratori di Ginzburg: da Giulio Einaudi, alla famiglia Levi da cui proviene la moglie Natalia, da Franco Antonicelli a Cesare Pavese detto Cesarito nella consuetudine amicale che lascia una sospensione nel giudizio che non condivido. Quella sospensione che porta al Taccuino segreto e all’apparente condivisione delle ragioni fasciste che sembrerebbero essere state condivise dallo scrittore piemontese. Da qui una nota che mi sembra, almeno, fuorviante: “Ognuno fa quello che la sua libertà gli impone di fare. Cesare Pavese si nasconde in una villa sulla Collina di Serralunga d’Alba, dove prolunga la ‘solita storia di macerazione e di rabbia’ e dove da quella storia caverà un bel romanzo. Leone Ginzburg scende di nuovo in clandestinità e Giaime Pintor pure.” (p. 178).

 

No. Le ragioni di uno scrittore hanno a mio avviso le stesse capacità di inerire nel reale come le scelte di vita.

Cesarito ha condiviso le ragioni di Ginzburg; si è seduto accanto a lui negli anni della costruzione della casa editrice Einaudi; è stato l’amico più caro di Natalia che ne ha lasciato un ritratto straordinario in Lessico famigliare: ha scritto romanzi di altissima qualità in cui le ragioni dei vinti si confondono con quelle dei vincitori sotto i falò della morte.

Ma al di là di questi giudizi che sono secondari rispetto all’impianto generale del romanzo colpisce la capacità di saper raccontare, attraverso una fedele e oggettiva risultanza, le stragi delle città italiane: da quella di Napoli, a quella di Roma ma soprattutto di Milano e Torino. Ancora una volta sembra che il modello sia ripreso dalla Storia morantiana con un ‘di più’ d‘informazione oggettiva che però non nasconde il ribrezzo morale di quelle stragi: dovunque se ne ricercasse la causa.

Il romanzo potrebbe già concludersi con la straordinaria lettera che Leone manda a Natalia poche ore prima di morire. E questa conclusione è commentata in modo davvero persuasivo da Scurati che ci turba per verità e commozione: “E’ questo addio che il morto non cessa di inviare a noi vivi l’ultima parola di Leone Ginzburg. Questa sublime, stremata, fervente ultima lettera a sua moglie e, tramite lei, ai suoi figli, questa è l’opera di Leone. Non c’è altro messaggio che questo.” (p.202).

Allora Scurati potrà parlare del ‘seguito’ facendo un ritratto di Natalia Ginzburg, della famiglia Scurati e arrivando nel capitolo titolato “Io” a proporsi come personaggio, a trarre le conseguenze di un racconto che trascina con sé nell’esemplarità di una vita il destino di coloro che restano. Si chiamino Ginzburg o Scurati o anche italiani. E con loro proporre un esempio di conforto anzi un “anti- veleno” alla nostra storia contemporanea.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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