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Chiari segnali intorno a noi raccontano della supremazia dell’economia sulla politica. La cosa è nota, palpabile, ossessivamente ripetuta in mille modi diversi dai media e a tutte le ore del giorno e per tutte le intelligenze. Diventa scontato, quindi, che un governo nulla possa contro le fluttuazioni della Borsa e, nel caso dell’Eurozona, sia pacatamente alla mercé dello Spread, della Bce e del Fmi. Ovvio anche che personaggi come Draghi o la Lagarde possano decidere della vita e della dignità di interi popoli.
Elezioni, referendum e voleri popolari sono stati del tutto accantonati in nome del dio denaro. Le politiche monetarie invadono la vita di tutti i giorni e gli umori della finanza determinano la crescita o la distruzione dei Paesi. Presidenti del Consiglio giustificano sofferenze, tagli alla spesa e ai servizi per conto dei mercati, parlano di austerità necessaria oggi per alleviare i peccati del passato in nome di una crescita futura, sempre più vaga e lontana, impalpabile ai più.
Non ricordiamo quando tutto questo sia iniziato, per i più il punto di rottura è stato il 2008 con il fallimento della Lehman Brothers ma io proverei ad andare più indietro, cercare tra le righe di innumerevoli piccole e grandi riforme che hanno visto la politica abdicare ai propri doveri. Ad esempio nel 1981 la Banca d’Italia “divorzia” dal Ministero del Tesoro ed inizia l’era del debito pubblico incontrollato. Come non ricordare il 1992 e l’allora Presidente del Consiglio Amato che in nome della salvezza della Patria regalava agli italiani le prime finanziarie lacrime e sangue insieme a un prelievo forzoso dai nostri conti correnti. E poi il Trattato di Maastricht, il Patto di stabilità e crescita, l’eliminazione della separazione delle banche commerciali e banche d’investimento, il ‘bail out’ (salvataggio delle banche attraverso l’intervento degli Stati quindi aumento del debito pubblico che pagano i cittadini) e oggi ‘bail in’ (ovvero la possibilità che anche piccoli azionisti o correntisti siano chiamati a salvare direttamente le banche, quindi pagano ancora i cittadini), limiti alla spesa pubblica e austerità a carico dei più deboli.
Comunque il 1992 fu annus horribilis. Si iniziò a interiorizzare la parola default e si partì con la storia da imparare a memoria che avevamo vissuto al disopra delle nostre possibilità e quindi iniziarono le grandi svendite del patrimonio pubblico. Ma dopo ventitré anni ancora non siamo riusciti ad espiare le nostre colpe nonostante le ricette miracolose provenienti da sinistra, destra, centro nonché dai governi tecnici. Oggi poi abbiamo una specie di ibrido al governo, dice di essere di sinistra, fa cose di destra che nemmeno alla destra piacciono ma di sicuro riceve il plauso dei grandi industriali, dei mercati e della finanza.
La gente continua ad approvare perché in fondo non c’è scelta, il dio denaro chiama e il governo deve rispondere. In natura però non è così, normalmente è l’uomo che decide come utilizzare le cose e non il contrario. In genere un metro non vive di vita propria ma ci dice esattamente quanto misura una stanza e una bilancia non impone dei chilogrammi in più o in meno all’oggetto che decidiamo di pesare. Potrebbe farlo solo se la persona che lo controlla decidesse di barare. Anche il denaro è una misura (di valore) ma sembra le abbiamo attribuito vita propria e nel nome di una misura sacrifichiamo le nostre vite, con il consenso di chi non vede altra scelta.
Ma tutto questo è una finzione, la politica non nasce subordinata all’economia o al denaro ma solo ai bisogni dell’essere umano e dei cittadini. Lo è diventata quando degli uomini hanno deciso che gli interessi di pochi dovessero prevalere sulle masse, in maniera lenta per non suscitare reazioni, abituandola attraverso proclami, gli slogan, le pubblicità ingannevoli.
Le politiche economiche e monetarie dovrebbero essere indirizzate al benessere dei cittadini, ma perché lo siano devono necessariamente essere orientate dalla politica, la buona politica, quella degli statisti che oggi purtroppo non abbiamo, ma guai a perderne del tutto la visione. Siamo in tempo per il risveglio, gli schiaffi che stanno destinando alla Grecia dovrebbero insegnarci qualcosa, aprire uno spiraglio nella nebbia dell’insofferenza e dell’accondiscendenza di questi ultimi trent’anni vissuti non al disopra delle nostre possibilità ma al disotto della nostra dignità.

Foto di Christian Hartmann/Reuters per Pri’s The World

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Claudio Pisapia

Dipendente del Ministero Difesa e appassionato di macroeconomia e geopolitica, ha scritto due libri: “Pensieri Sparsi. L’economia dell’essere umano” e “L’altra faccia della moneta. Il debito che non fa paura”. Storico collaboratore del Gruppo Economia di Ferrara (www.gecofe.it) con il quale ha contribuito ad organizzare numerosi incontri con i cittadini sotto forma di conversazioni civili, spettacoli e mostre, si impegna nello studio e nella divulgazione di un’informazione libera dai vincoli del pregiudizio. Cura il blog personale www.claudiopisapia.info

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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