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“Ci sono molte cause per le quali sono pronto a morire, ma nessuna per cui sono pronto a uccidere”. Gandhi

In un mondo dove ormai pare predominare la violenza di ogni genere (immagini, parole, gesti) parlare di nonviolenza può sembrare un’utopia, un grido nel vuoto. Ma oggi è la Giornata internazionale della nonviolenza, e ricordarlo non è retorico.
Si celebra il 2 ottobre per ricordare la nascita di Mohandas Karamchand Gandhi, noto come Mahatma Gandhi. Promossa dall’Onu nel 2007, la risoluzione dall’Assemblea generale chiedeva a tutti i membri delle Nazioni Unite di commemorarla in maniera adeguata così da “divulgare il messaggio della nonviolenza, anche attraverso l’informazione e la consapevolezza pubblica”, un principio universale fondamentale per assicurare una cultura di pace, tolleranza e comprensione. Il rifiuto della violenza fisica o verbale per raggiungere un qualsiasi obiettivo di cambiamento politico o sociale e la resistenza non violenta (che non significa passività) sono stati il cuore della vita e della filosofia pacifica di Gandhi.
Nato nel 1869 a Porbandar, nell’attuale stato del Gujarat, nell’India nord-occidentale, il Mahatma – termine sanscrito che significa “grande anima” e che gli venne conferito per la prima volta dal grande poeta Rabindranath Tagore – si oppose sempre alla violenza, provando a sovvertirne gli schemi con immensa forza di volontà e coraggio. Il professor Gene Sharp, uno dei primi studiosi della resistenza nonviolenta, utilizza la seguente definizione nella sua pubblicazione, The Politics of Nonviolent Action: “L’azione nonviolenta è una tecnica con cui le persone che rifiutano la passività e la sottomissione, e vedono la lotta come essenziale, possono vincere il conflitto senza violenza. L’azione nonviolenta non è un tentativo di evitare o ignorare conflitto. È una risposta al problema di come agire efficacemente in politica, in particolar modo come esercitare il potere efficacemente”.

Gandhi, con il suo esempio, ha dimostrato le proteste pacifiche sono più efficaci delle aggressioni militari. Dal 1906, in Sudafrica, aveva lanciato, contro le discriminazioni razziali inflitte ai suoi connazionali, il suo metodo di lotta basato sulla resistenza nonviolenta, il “satyagraha”: una forma di non-collaborazione radicale con il governo britannico, concepita come mezzo di pressione di massa. Tramite ribellioni pacifiche e marce, avrebbe ottenuto importanti riforme a favore dei lavoratori indiani. Segno che la non violenza poteva e può essere efficace e (ri)pagare. Le campagne di disobbedienza civile sarebbero continuate (dalla prima, nel 1919, a favore del boicottaggio delle merci inglesi e del non-pagamento delle imposte che lo portò a processo e arresto, alla seconda, nel 1921, per rivendicare il diritto all’indipendenza, che lo vide ancora in carcere, fino alla terza, nel 1930, contro la tassa sul sale, giudicata estremamente iniqua perché colpiva soprattutto le classi povere). Spesso incarcerato, negli anni successivi, rispose agli arresti con lunghi scioperi della fame. Sempre con coraggio, fermezza, umiltà e serenità. “La mia non-cooperazione”, diceva, “non nuoce a nessuno; è non-cooperazione con il male, (…) portato a sistema, non con chi fa il male”.

Autodeterminazione dei popoli, convivenza pacifica, rispetto reciproco, fratellanza e tolleranza religiosa erano i suoi più alti convincimenti e desideri. Ricchezze che dovevano convivere.
Oggi più che mai questo messaggio va incoraggiati: divisi da intolleranze e conflitti che abbruttiscono, va promossa una vera cultura di pace, basata e costruita su dialogo e comprensione. Per vivere insieme in armonia e rispetto e celebrare la ricchezza della diversità dell’umanità.

In questa giornata importante, tutti siamo chiamati a riflettere e mobilitarci contro l’intolleranza, a sostegno della cittadinanza globale della solidarietà nello spirito della nonviolenza. “Una cosa è certa. Se la folle corsa agli armamenti continua, l’esito sarà un massacro quale non si è mai visto nella storia. Se ci sarà un vincitore, la vittoria vera sarà una morte vivente per la nazione che riuscirà vittoriosa. Non c’è scampo allora alla rovina incombente se non attraverso la coraggiosa e incondizionata accettazione del metodo non violento con tutte le sue mirabili implicazioni. Se non vi fosse cupidigia, non vi sarebbe motivo di armamenti. Il principio della non violenza richiede la completa astensione da qualsiasi forma di sfruttamento. Non appena scomparirà lo spirito di sfruttamento, gli armamenti saranno sentiti come un effettivo insopportabile peso. Non si può giungere a un vero disarmo se le nazioni del mondo non cessano di sfruttarsi a vicenda” (Mohandas Karamchand Gandhi, Antiche come le Montagne).

Ogni uomo può cercare la sua strada e seguirla senza esitazioni. “Apprendere che nella battaglia della vita si può facilmente vincere l’odio con l’amore, la menzogna con la verità, la violenza con l’abnegazione dovrebbe essere un elemento fondamentale nell’educazione di un bambino”. (Gandhi)

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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