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Un bambino silenzioso, un nonno-orco, un adulto sociopatico e un amico che sarebbe meglio non incontrare mai. Sono i protagonisti di “A bocca chiusa” (Newton Compton) dell’artista ferrarese Stefano Bonazzi, presentato alla libreria Giralibri di Argenta. Ispirazioni alla Raymond Carver e Philip Roth, il romanzo si è già guadagnato un paragone con “Io non ho paura” di Niccolò Ammaniti.
La scrittura visiva, fotografica, quasi chirurgica nella sua linearità, racconta le azioni nude e crude, componendo una sorta di fiaba nera in due parti.
La prima vede, da un lato, un bambino costretto a trascorrere le vacanze estive in una casa in cui – “The Others” docet – non filtra luce perché le persiane delle finestre sono perennemente chiuse, e sfoga il suo essere bambino costruendo mondi con i Lego, seduto sul tappeto, e disegnandoli, con la scatola dei pennarelli e un blocco di fogli di carta. Dall’altro, un nonno che conosce schiaffi al posto di carezze, che porta in giro il nipote sull’unico essere che abbia mai davvero amato (un Iveco rosso dal motore potente e rumoroso), che osserva guardingo l’umanità, con tratti fisici e psicologici più simili a un animale che non a un uomo.
La seconda, scritta in terza persona per riuscire a prenderne le distanze, vede un adulto svuotato e apatico, costruito a tavolino dagli psicofarmaci e da un lavoro meccanico, kafkiano senza davvero essere in colpa per qualcosa, assente e desideroso solo di scomparire da se stesso; fino a quando a comparire nella sua vita sarà un bambino il cui segno distintivo è un cappottino rosso, il cappottino rosso del Cappuccetto di Perrault come quello giallo della salvifica Ivy di “The Village” e un amico pericoloso di nome Luca.
Soggetti fortemente connotati attraverso le azioni che compiono, pur non possedendo nome proprio – sono semplicemente “nonno” e “bambino”, i protagonisti – si associano potenzialmente a chiunque, contenitori delle loro azioni riprovevoli e innocenti, malate e improvvise, vissute attraverso gli occhi di un bambino o di adulti sopraffatti dalle proprie esperienze. E che avevano ispirato il titolo inizialmente proposto dall’autore, anch’esso filtrato attraverso gli occhi e le azioni, e che risuona come avvertimento e speranza: “Comunque proteggimi”.

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Giorgia Pizzirani



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