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Prima parte
Annoiati, silenziosi.
Lentamente si alza la prima fila di finti spettatori, a riempire il palco con sedie a rimorchio, stanchi come lumache dal guscio fragile.
Burattini inerti, attori che sembrano crederci o forse no, intrappolati nella messa in scena rituale e brutale nella sua fissità e ripetitiva sicurezza da botte di ferro.
Ma una botte di ferro è davvero un bel posto in cui stare?
Voci impastate, asincrone, recitano messa tormentandosi le tasche del soprabito in cerca dell’obolo per l’offerta, o allungando stancamente la mano verso la mano del vicino, o prostrandosi davanti a un immaginario inginocchiatoio. Mondi sommersi, in cui ognuno resta a sé senza senso di comunità, senza abbassare la guardia e senza quasi curarsene, quasi agnostico. Non ci si cura l’anima né il corpo, non c’è catarsi né pentimento, redenzione né conforto.
Si dispongono tutti in fila ordinata per ricevere l’eucaristia inesistente da un invisibile pastore di anime, ma potrebbero essere in attesa del proprio turno alle poste, o in banca, o della TAC in ospedale dopo avere aspettato dieci mesi in cui il male, se già c’era, ha spodestato le cellule buone. Eccola, la religione oppio del popolo, anche se in questo caso la droga è più simile a quell’assenzio descritto da Degas, di cui sono vittime gli artisti consumati, isolati, lontani. Quelli vissuti, più che viveur.
È un rito questo, o solo la normalità, quello che ci scorre intorno ogni giorno e a cui siamo abituati senza cercare più rimedio?

assemblea e Marco Sgarbi in fila durante una scena
assemblea e Marco Sgarbi in fila durante una scena

Seconda parte
Il prete (Marco Sgarbi) nella sua sua buona fede è l’unico che si aspetta ancora qualcosa.
Dalle sue pecorelle meccaniche, dagli spettatori, forse dal mondo intero; perciò rasserena e in qualche modo è giustificazione dello spettacolo stesso. Prete operaio, prete della gente, prete inchiodato dall’indifferenza come le assi che martella per mettere in piedi un altare che ricoprirà poi con bottiglia d’acqua e ampolle di vino, guarda il suo uditorio con una espressione tra lo smarrito e il nervoso. Prende e lascia, parla e tace il prete statico e dinamico, sacro e profano, cerca appoggio senza trovarlo, costringendomi a ricordare che faccio parte del pubblico e che quindi non posso (non devo?) interrompere né prendere parola, perché io sono dall’altra parte della barricata: di fronte al palcoscenico, al buio, dove nessuno mi ascolterebbe né, peggio ancora, sarebbe giustificato ad ascoltarmi.
La recita è talmente veritiera che c’è da impuntarsi per non prendere parte al rito delle parole, per tenersi letteralmente fuori dallo spettacolo, nonostante lo sguardo ora supplicante, ora severo, non abbandoni mai la sala.
Mentre uno dei protagonisti sottolinea il fatto che lui, di facce contente a messa ne ho sempre viste ben poche, io tiro un sospiro di sollievo: alla fine mi ricordo che, come Bunuel, grazie a Dio sono atea.

Locandina spettacolo
Locandina spettacolo

“Messa in scena”, regia di Giulio Costa, è stato portato sul palco di Teatro Off sabato 5, 12 e 19 dicembre, e venerdì 18 dicembre.
Già vincitore di un premio nel 2011, in cui era rappresentata la seconda parte, “Messa in scena” appartiene a “un progetto ampio, intitolato “Manufatti artigiani”, che percorre una carrellata di mestieri” – racconta il regista Giulio Costa.
“Il tema era “La sacralità del quotidiano”: e cosa c’è di più sacro che una messa? Alla parte originaria, quella della messa officiata dal parroco, è stata poi aggiunta quella dell’assemblea, a cui hanno partecipato Cristiano Bernardelli, Grazia Carboni, Massimo Festi, Sara Draghi, Teresa Guarnieri, Filippo Romani, Chiara Ferraresi, Denise Dina, Elisabetta Bianca, Francesco Gori, Arturo Pesaro, Elena Grazzi, Valentina Dall’Ara, Annalisa Piva, Maria Cristofori, Dörte Dahlke, partecipanti del workshop teatrale ideato dallo stesso Costa.
Portare il sacro sul palco significa conferire sacralità al palcoscenico e porre attenzione sulla meccanicità del rituale religioso, appiattirlo e renderlo fruibile. Interessante come arriva a mantenere la doppia prospettiva, tra il desiderio del singolo di appartenere a un gruppo, un’entità maggiore e forse migliore, e il suo desiderio tangibile di mantenere intatta la propria identità, pur se in una alienazione totale. Il sacro assume così il connotato di appiglio, ma anche di smarrimento; di riempimento formale ma di vuoto interiore, che sembra l’unica certezza di ogni personaggio.

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Giorgia Pizzirani


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it